Dopo cinque trionfali edizioni inglesi e altrettante americane (senza contare quelle di una mezza dozzina d’altri paesi) sbarca in Italia Undercover boss, tradotto col titolo di Boss in incognito (Rai2, prima serata, da lunedì 27). L’idea del programma è presto detta: il boss di un’azienda (presidente, amministratore delegato o qualche altro pezzo grosso) viene camuffato in modo da rendersi irriconoscibile e viene inserito con un pretesto ai piani più bassi della piramide aziendale, lavorando gomito a gomito con chi in tali piani vi abita stabilmente. Nella prima puntata della serie, per esempio, il proprietario di un’azienda di abbigliamento fa il commesso, il magazziniere, guida il furgoncino e lavora in fabbrica a Istanbul, dove la sua azienda ha dislocato la produzione. Seguono peripezie varie e lieto fine di rigore. Il format si inserisce in un filone abbastanza caratteristico che può essere definito “incognito show”, il cui capostipite è un altro programma inglese: Secret millionarie. In questo caso un riccastro frequenta per un certo periodo i bassifondi sociali per rivelare poi la sua vera identità alla fine della puntata, premiando le persone più meritevoli che ha incontrato. Si può poi ricordare anche Undercover Princes e lo speculare Undercover Princesses (entrambi trasmessi da BBC3, mica chissà quale rete di basso rango), in cui giovani e blasonati rampolli di qualche esotica nobiltà bazzicavano popolari quartieri inglesi, mescolandosi con comuni mortali per cercare le loro dolci e borghesi metà.

Dichiaratamente entrambi i format si ispiravano al film Il principe cerca moglie, interpretato da un brillante Eddie Murphy. Si può poi citare un Undercover chef (israeliano), un The secret tourist (inglese) e qualche altro caso ancora. In Italia un tentativo del genere è stato più o meno fatto qualche tempo fa con Le vite degli altri, trasmesso da La7 e tratto dallo spagnolo 21 dias: un’intrepida eroina (nel nostro caso la Rafanelli) si calava nei recessi più sordidi della nostra penisola vivendo in prima persona un po’ di situazioni toste.

Ma tanto è tutto finto. Sarà questa l’obiezione di chi la televisione la guarda ma ne diffida sempre e comunque. I programmi di questo genere sono per forza finti. E invece no: è tutto assolutamente vero. E questo per una sola e semplicissima ragione: a farli finti questi programmi verrebbero una schifezza. Specie in Italia in cui buona parte degli attori professionisti recitano in modo che definire imbarazzante è poco, non è possibile chiedere di recitare a chi nella vita fa tutt’altro. E comunque non si può chiedere di recitare quelle cose, in quei contesti, a quel tasso emotive. Tutto puzzerebbe di falsità lontano un miglio, ogni singola battuta suonerebbe stonata, i rapporti interpersonali che si vengono a creare nel corso del programma non avrebbero quella forza che invece hanno. Niente da fare: programmi di questo tipo tocca a farli veri, altrimenti non funzionano. Anche se a farli veri si fatica di più.

Nell’edizione italiana, per esempio, prima di trovare i quattro boss protagonisti delle quattro puntate della serie, sono stati contattati oltre 30 top manager di altrettante aziende, incassando una quantità di rifiuti e un’altra quantità di “le faremo sapere”. Quindi, una volta trovati i volontari, si è proceduto a una selezione certosina di tutte le situazioni e le persone da coinvolgere. La presenza delle telecamere è stata giustificata dicendo ai dipendenti che si trattava di un documentario sul re-inserimento di persone di una certa età che han perso il lavoro. Le poche provocazioni sceneggiate (che servono a dare un po’ di pepe al tutto) sono esplicitamente dichiarate dal presentatore, quel Costantino della Gherardesca che sta diventando, incredibile dictu, uno dei volti di riferimento di Rai2. Insomma, Boss in incognito può piacere o non piacere (a me personalmente le edizioni anglosassoni sono piaciute un sacco e, in ogni caso, vivaddio, si tratta di qualcosa di nuovo). Ma tutto quello che si vede, nel bene e nel male, è accaduto davvero. Non è poco.

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