Finisterre, ultima tappa per chi intraprende il cammino di Santiago, nell’antichità segnava la fine delle terre emerse: è questo il motivo per cui i Lou Tapage, band cuneese dedita “alla musica folk da balera, per far ballare la gente il più veloce possibile con i volumi più alti possibili”, hanno deciso di intitolare il loro ultimo album proprio Finisterre. Perché è un disco che parla di viaggi e guarda all’orizzonte per poter scorgere nuove mete da raggiungere. “Ci è rimasta impressa come un solco, l’immagine di un uomo che dopo aver percorso un lungo cammino si ferma per un istante per capire dove è arrivato – racconta il cantante, Sergio Pozzi – se effettivamente è arrivato a qualcosa che si può chiamare meta e quale sarà la prossima”. Tra occitano e italiano, strumenti tradizionali, tastiere e fiati, le diverse voci e contaminazioni spingono in molteplici direzioni ognuno dei 12 brani. In Finisterre si ritrovano il ritmo dei balli popolari, le arie irlandesi, stralci di cantautorato italo-francese, suggestioni della musica celtica, e non solo quella che proviene da Irlanda e Scozia, ma anche dalla Spagna e dalla Francia stessa. Riguardo alla passione per la cultura occitana, per loro “è una musica che ti ronza in testa da sempre, un’aria che ti canticchiano nella culla, che rimbomba, che fa da sottofondo alle feste. Quella musica era lì mentre andavi a scuola, quando uscivi dal lavoro, persino ai funerali”. E poi, oltre alla musica c’è un discorso di lingua: “Tonino Guerra diceva che ‘in dialetto puoi parlare con Dio, ma non puoi parlare di Dio in dialetto’; per ogni brano abbiamo scelto la lingua che ci sembrava più naturale in base alle cose da raccontare”. Suggestivi.

Sergio, chi sono i Lou Tapage e come si sono formati?
I Lou Tapage nascono intorno al 2000, ma il primo disco l’abbiamo registrato 2005. La band nasce come gruppo di musica folk da balera e nel mezzo della cerchia di musica tradizionale eravamo quelli giovani che facevano un gran casino, e qua si svela anche il nome, Tapage che in occitano significa frastuono. Si cercava di unire le diverse influenze, dal rock inglese e d’Oltreoceano alla musica irish passando per la scena tradizionale francese, con il denominatore comune di tutti, le vallate di Cuneo e il loro carico di tradizione popolare. Parlare di noi pone sempre un problema di base, ovvero se considerare i singoli o l’insieme. Forse lo si può risolvere proprio a partire da questo punto: siamo sei persone con diversissime formazioni musicali, influenze e predisposizioni. Quando in sei ci mettiamo a suonare insieme diventiamo un gruppo, si crea un amalgama, una complicità che ti fa venir voglia di non smettere, o continuare il più possibile.

Mi parlate di questo disco Finisterre? Qual è il motivo per cui avete deciso di intitolarlo così?
Se ti trovavi all’epoca dei Trovatori a intraprendere un viaggio, il limite, la meta ultima per eccellenza era Finisterre. È effettivamente un album da fine viaggio, quel particolare momento in cui ti volti indietro e fai una sorta di riepilogo, bilanciando luci, ombre, alti e bassi, e tramutando ogni piccola esperienza in un racconto. I brani sono pezzi di racconto, sfaccettature del viaggio, senza la pretesa di abbracciarle tutte in 12 pezzi, ma rifacendoci alla nostra esperienza personale.

Avete intrapreso il cammino di Santiago?
Marco Barbero, il nostro flautista, ha percorso parte del cammino di Santiago, da lui è arrivata l’idea suggestiva del titolo del disco, ma l’idea è di un viaggio più astratto, che si possa in qualche modo collegare a quel preciso viaggio che ognuno di noi ha in testa e si porta dietro come totem, che sia verso Santiago, Capoverde, la Svizzera o Poggibonsi.

Molto bello e denso di significati l’artwork del disco. Mi date qualche spiegazione al riguardo?
L’artwork è realizzato da Giorgio Mondino dello studio Estroverso, colpevole di aver dato i natali agli altro quattro dischi dei Tapage. Insieme alle foto di Agnese Vigorelli e Maria Luisa Calosso si voleva creare una tensione, un contrasto tra l’impostazione seriosa del disegno e le nostre facce e movimenti tutt’altro che seriosi. Come a voler dire che non è mai tutto esattamente descrivibile e riducibile a una direzione: in copertina c’è una Rosa dei Venti, non un satellitare che ti dice dove andare, ma un simbolo delle direzioni che si possono prendere e, tra una punta e l’altra, tutte le sfumature di direzioni che si vogliono scegliere. La torre è l’interpretazione di Giorgio di Finisterre, da lassù fissi il mare e prepari il dopo: superare le proprie personali Colonne d’Ercole, o tornare indietro, o fermarsi.

Come nasce la vostra passione per la cultura occitana?
È una musica che ti ronza in testa, un motivo, un’aria che ti canticchiano nella culla, rimbomba sempre, sottofondo delle feste prima di famiglia e poi tra i tuoi amici. Tra un ballo e l’altro le hai chiesto per la prima volta di uscire, quella musica era lì mentre andavi a scuola, quando uscivi dal lavoro; richiamo di sentirla ai funerali. Quando prendi uno strumento e suoni tutt’altro, quella musica rimane lì, pronta a uscire anche se non te ne accorgi.

Come nascono le vostre canzoni? Da cosa sono ispirate generalmente?
Guardo l’elenco dei brani di Finisterre e ci sono storie pescate dalle nostre esperienze, fatti di cronaca, storie semi-inventate nel nome della goliardia e altre che pescano dalla tradizione dei primi poeti trovatori medievali. A volte è il testo che ispira la musica, altre volte il violino di chiara porta a riempire pagine. Sembra quasi la rosa dei venti di copertina all’inverso, il brano al centro, ogni volta l’ispirazione non si sa da che parte può arrivare.

Avete un artista o una band a cui vi ispirate?
Non una in particolare. Tante teste, tante idee, si moltiplicano le ispirazioni. Ci piacerebbe certo avere l’energia sul palco di noti gruppi che han fatto la storia del folck-rock, l’efficacia comunicativa dei parolieri cantautori tra Francia e Italia.

Quali sono le vostre ambizioni riguardo questo disco?
Abbiamo cercato di superare la nostra Finisterre linguistica, non sostituendo ma aggiungendo altri strumenti espressivi che non avevamo mai usato prima, come l’italiano. Forse la nostra ambizione è di arrivare anche a un pubblico non strettamente collegato alla cultura occitana e raccontargli le nostre storie, sperando che in quelle ci vede anche un po’ delle sue.

Cosa rappresenta per voi?
Rappresenta il risultato degli ultimi tre anni, il lavoro di gruppo, ascoltandolo vedo tutte le persone che hanno fatto parte del progetto e che lo hanno reso possibile. È anche una sfida, salire lo scalino dell’italiano senza scivolare.

Qual è il messaggio che vi piacerebbe venga colto da chi l’ascolta?
La polifonia, le diverse voci, le diverse lingue e le diverse contaminazioni che spingono in direzioni diverse ogni brano. Certo la nostra è sì una riflessione sul viaggio, ma non è un invito a passare la vita nella propria Finisterre, crogiolandosi nella riflessione: la musica è la prima cosa che ci piacerebbe venisse colta, l’energia che ci abbiamo messo sperando di essere riusciti a trasmetterla. Fare questo disco è stato in prima cosa divertente, coinvolgente, come per noi ogni volta che suoniamo: come dice l’attualmente citatissimo poeta russo Miša Sapego: “Soffrirò, morirò, ma intanto, sole vento vino trallallà”.

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