Quando ancora non è che un ragazzino, il padre gli mette in mano una chitarra, gli insegna qualche accordo e gli dice: “Così, se le cose dovessero mettersi male, vai fuori dalle trattorie, suoni e una minestra la rimedi sempre”. Terrore. “Da quel momento ho sempre cercato di evitare quella fine, e in trattoria, anche a cena, ci vado mal volentieri!”. Cosimo Messeri, figlio d’arte – il padre è l’attore Marco Messeri – oggi ha 28 anni e, seguendo il consiglio (oltreché le orme) del padre, ha coltivato le due passioni che sono da sempre insite dentro di sé, anche per via genetica: la musica e il cinema. “Anche se so che sono due inferni – afferma – spero di riuscire a portarle sempre avanti entrambe, riuscendo a far coincidere quelle che si possono chiamare ‘vocazioni’ con la realizzazione di me stesso”. E prosegue: “Molti mi chiedono: ma cosa sei tu, un regista? Un musicista? Un cantante? Un attore? Insomma cosa? Io non lo so, mi sento solo di dire che l’anomalia non sono io, ma il piattume generale di questo momento storico culturale, di questo sonnolente paese. D’altronde in pieno Medioevo è facile essere rinascimentali: basta nascere!”. E così, eccolo arrivare all’esordio in veste da cantautore, con un disco alquanto bizzarro, a partire dal titolo Capitan Confusione, che è tutto un programma. E lo si intuisce anche dalla copertina. Sul titolo dice: “Ci penso spesso e non so proprio spiegarmi perché ho messo questo titolo, quella copertina… d’altronde, viviamo in un momento così limpido e sereno”. Forse perché il popolo ha bisogno di una guida, azzardiamo. “No. Rifuggo da sempre i reazionari e i dogmatici, che credono di poter aver le idee chiare su tutto e di interpretare tutto quanto in maniera razionale e senza dover dubitare di nulla. Davanti a questi tentativi di schematizzare la vita c’è qualcosa che in me si ribella, forse infantilmente, ma con grande violenza e vivacità”. Sulla cover, invece: “Io credo che proprio questa farsesca confusione della vita sia l’unica salvezza contro ogni tentativo di mummificazione. E quindi perfino uno scemo in sella al contrario su uno gnu forse ha delle possibilità!”

Ciao Cosimo, parlaci di te, presentati ai lettori del Fatto.
Ma io sono la persona meno adatta a farlo, e poi non so parlare del mio lavoro. Appena lo faccio, e mi tocca usare delle definizioni, argomentare, scendere in dettagli, mi sembra di essere subito lontanissimo dal mio lavoro. Insomma, in generale, a parlare del proprio lavoro in campo artistico, per quanto mi riguarda, mi sembra come di far la spia, di anticipare cose di una creatura che ha il diritto di essere rispettata nella sua natura più intima e di rivelarsi soltanto quando vuole lei. Anche in fase di “creazione” preferisco non sapere quello che sto facendo e aspettare, a lavoro finito, il guaio che ho combinato e che ormai però è irrimediabile. Comunque, ho deciso. Ne parlerò facendo finta di non essere io, ma un filosofo a caso…Buttiglione? che parla di Capitan Confusione.

Perfetto, allora il professor Buttiglione ci parlerà di questo disco. Chi è Capitan Confusione?
Capitan Confusione
è una piccola introduzione nata apposta per l’album, di quelle in scaletta infatti è l’ultima a esser stata composta. Volevo chiamare l’album Capitan Confusione, e mentre un giorno ne parlavo con un amico, Marco Lodoli, lui mi ha chiesto a bruciapelo: “Ma dentro c’è una canzone che si chiama Capitan Confusione, sì?” Come avevo fatto a non pensarci? Ma certo, aveva ragione, non c’era! E così fu.

Come nascono le tue canzoni?
Ad oggi ho 28 anni e ho passato e passo molto tempo in cameretta. È un non luogo che mi soccorre, mi sprona e mi esalta, mi protegge. E credo che anche quando un giorno la cameretta petrarchesca sembrerà alle spalle, in realtà sarà sempre lì, con me. Il brano Well on the way parla di questo. La solitudine come un bene necessario, una riflessione da salvaguardare e non da rifuggire in tanti vuoti aperitivi o in super telefonini sempre accesi. La solitudine, il silenzio sono dolori preziosi che vanno attraversati e che serviranno se non altro a conoscerci meglio, ad assomigliarci un po’ di più.

Parliamo invece dei contenuti e partiamo dal singolo che ha anticipato l’uscita del disco: Il mio Transit.
Capita nei primi anni dell’infanzia di registrare con lo sguardo e col cuore degli oggetti. Uno di questi per me è un vecchio Ford Transit rosso. È il furgone con cui mio padre ha iniziato a portare in giro i suoi spettacoli negli anni 70, caricandoci dentro le scene, immagino qualche amorazzo, la smania, le speranze. E dev’essere una prerogativa di quel furgone, perché Il mio Transit mi ha dato lo slancio e il coraggio di fare il disco. Mi rotolava bene nella testa, mi dava euforia, buon umore. Così ho pensato: se queste emozioni le dà a me, magari può passarle anche a qualcun altro, no?

Segue il brano E un giorno un occhio.
È il suo contrario. Ambiziosa, ruffiana, malinconica, lirica, potrebbe essere, per usare un termine alla Guénon, la mia canzone per il re del mondo. Sarà il secondo singolo a uscire, con tanto di video allegorico.

Ho trovato molto singolare il brano MaraToma
Antonio Toma. Maradona. MaraToma. Cercate su youtube! Vedo continuamente e stupidamente dei “gemellaggi” tra canzoni nelle discografie. Prendiamo i Beatles. Secondo me I’ll follow the sun parla con I will, For no one, con In my life, Mother’s nature son è la cugina di The fool on the hill. A posteriori ho visto queste insensate parentele anche nel mio lavoro. Evviva la ferrovia apre un discorso western e allo stesso tempo continua quello di E un giorno un occhio, entrambe poi sono seguite e concluse da Emmò Embé. Il manicomio navale è dietro l’angolo, lo so, ma io la vedo così e ormai è troppo tardi.

Arriviamo al Valzerino…
Valzerino
mi mette sempre in imbarazzo. Per me che cerco di vivere in una costante dimensione d’equilibrio dove nulla è scelto ma in definitiva nulla è scartato, questa canzoncina è veramente troppo nuda e sono pentito di averla inclusa! Per fortuna che dura poco e arriva Nembo chi? a salvarmi. Mi sono sempre piaciuti gli intermezzi brevi, che dicono tutto e nulla e lasciano la voglia di farsi riascoltare. Così nel disco ho disseminato queste pagliuzze qua e là.

Qual è il senso di Deva Om?
È una delle prime canzoni che ho composto in assoluto. La prima registrazione risale al 1999. Ma prendiamola alla lontana. Io credo molto nei sogni, e mi piace pensare di avere con loro un rapporto di amicizia e sgomento. I sogni mi affascinano e mi scuotono a tal punto che negli anni ho sviluppato la stramba capacità di svegliarmi in piena notte e trascriverli a caldo. Certe rivelazioni di quanto mi stava accadendo nella vita, certi dolori, alcune soluzioni narrative: tutte queste cose spesso mi sono arrivate attraverso i sogni. E così Deva Om. Sognai George Harrison. Era molto magro, con una barba lunghissima e un camicione a scacchi rossi e marroni. Stava seduto al centro di un giardino giapponese e mi suonava le strofe della canzone. Mi svegliai e la registrai. Non racconto mai questa storia perché c’è la forte possibilità d’esser preso per pazzo, e che mi ritirino la patente. A ogni modo, potevo non dirla in questa chiacchierata? Ma soprattutto, potevo non metterla nell’album?

Un’ultima cosa che vorresti dire ai nostri lettori?
Se ciò che avete letto lo trovate insultante o banale o peggio ancora gratuito, non ve la prendete, ma rivolgetevi pure a Buttiglione.

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