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La Cina abolirà i campi di lavoro. Stop anche a politica figlio unico

La svolta cinese. Saranno aboliti i sistemi di rieducazione attraverso il lavoro e sarà ammorbidita la cosiddetta politica del figlio unico. Verranno anche ridotti “passo dopo passo” i crimini soggetti alla pena di morte

La Cina abolirà i sistemi di rieducazione attraverso il lavoro, ammorbidirà la cosiddetta politica del figlio unico e ridurrà “passo dopo passo” i crimini soggetti alla pena capitale. Il paese inoltre lavorerà per impedire le confessioni estorte attraverso torture e abusi fisici. È quanto emerge dal documento conclusivo del Terzo Plenum del Partito comunista cinese, reso pubblico tre giorni dopo la chiusura della riunione che dovrebbe aver gettato le basi delle politiche economico finanziarie per il prossimo decennio. La nuova pianificazione familiare prevede che una coppia possa avere due figli se uno dei due genitori è figlio unico. Una “decisione chiave” come la definisce l’agenzia di stampa Xinhua, motivata anche dal veloce tasso di invecchiamento della popolazione.

Ma la notizia che fa più clamore è quella dell’abolizione dei cosiddetti campi di rieducazione attraverso il lavoro. Nella legislazione si può essere assegnati ai laojiao (precedentemente laogai) senza processo e per i più disparati motivi. Il sistema dei campi di lavoro è stato introdotto nel lontano 1957 a seguito di una circolare del Consiglio di Stato. All’epoca vi si mandavano i cosiddetti “controrivoluzionari”, così come i colpevoli di reati minori come furto, frode o vandalismo.

Con gli anni i campi sono stati riempiti anche di prostitute, tossicodipendenti, petizionisti, dissidenti e appartenenti a sette religiose ritenute llegali come quella del Falun Gong. E ci si possono trovare anche personaggi del calibro di Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace 2009. In genere vi si rinchiudono gli imputati di reati minori, punibili con una pena amministrativa comminata senza processo, che lascia quindi ampia discrezionalità alla polizia e si traduce spesso in arbitrio. Secondo i dati diffusi dal Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni unite nel 2009, vi sarebbero sottoposte circa 190mila persone (i media cinesi parlano di 60mila), suddivise in circa 320 campi. L’anno scorso il New York Times aveva pubblicato una lista di casi paradossali: un lavoratore migrante condannato ai lavori forzati per aver litigato con un funzionario in un ristorante o una madre per aver protestato pubblicamente contro la pena giudicata inadeguata a chi aveva violentato e costretto a prostituirsi la figlia. Ma il punto che ci tocca tutti è quello tirato fuori da un’inchiesta di Al Jazeera: i beni prodotti dai detenuti nei campi di rieducazione vengono poi illegalmente venduti a Stati Uniti ed Europa. Un’inchiesta del New York Times aveva addirittura a ritroso il percorso di un messaggio in un inglese stentato rinvenuto da una casalinga dell’Oregon in una decorazione di Halloween comprata nel 2011: “Signore, se dovesse acquistare questo prodotto, la prego gentilmente di rispedire questa lettera all’Organizzazione mondiale dei diritti umani”. La decorazione era stata prodotta nel campo di Masanjia, in condizioni oltre l’umano immaginario. Una recente inchiesta della rivista cinese Lens – in Italia tradotta da Internazionale – su questo campo di lavoro femminile metteva a nudo gli abusi perpetuati nei campi e le assurde motivazione per cui vi si poteva essere spediti. Una prigioniera raccontava che quando era stata liberata aveva nascosto nelle parti intime le testimonianza di altre donne e un loro appello alla giustizia. Il reportage raccoglieva altre testimonianze, e il puzzle che ricostruiva era raccapricciante: lavoro a basso costo, torture, violenze fisiche e psicologiche al limite dell’umana sopportazione. Tanto che alcune di quelle donne avevano addirittura tentato il suicidio.

di Cecilia Attanasio Ghezzi