La bonifica mai fatta del Sulcis Iglesiente è costata finora centinaia di milioni. Trecento finiti nella voragine Igea, altrettanti nella Ifras. La prima è una società in house della Regione, in quota Udc. La seconda è un’associazione temporanea di imprese (Ati), tra due privati, il sardo Massimo Pireddu e il pugliese Enrico Intini, coinvolto a Bari nell’inchiesta sulle escort di Gianpaolo Tarantini e recentemente condannato a Napoli nell’inchiesta sugli appalti per la sicurezza. Nelle loro mani la Regione, senza nessuna gara né capitolati d’appalto, ha messo con l’ultima legge finanziaria altri 112 milioni per i prossimi quattro anni. Tutto per bonifiche delle aree minerarie di tutta la Sardegna, in gran parte concentrate nelle zone dell’Iglesiente e del Sulcis. Bonifiche mai fatte. Uno sperpero di denaro pubblico che rappresenta una piccola parte del malaffare che coinvolge i piani alti della politica sarda, certe zone dei sindacati, una parte consistente degli operai: quelli che gli altri, rimasti fuori dal giro, chiamano “il cerchio magico”.

Quel “cerchio magico” che gestisce tutto
Questa non è la storia del Sulcis. Non è la storia degli operai Alcoa di nuovo in piazza a Roma lunedì scorso per tentare inutilmente di strappare un rinvio dei licenziamenti. Né è la storia di Carbosulcis, dove si spera ancora di estrarre carbone o di usare le miniere per imprigionarvi l’anidride carbonica. Qui no. A Iglesias e dintorni con Igea, Ifras, Parco Geominerario, parliamo di miniere di zinco e piombo, esaurite o abbandonate perché non più produttive. Nessuno le vuole resuscitare. Da lì nasce Igea, nel 1998, incorporando tutte le società minerarie dell’isola, a partire dall’Ente minerario sardo, con la missione di bonificare e aprire tutto quel mondo allo sviluppo turistico, culturale, ambientale. Come hanno fatto altrove. In Francia o in Germania. Ci sono miniere chiuse anche a Lula e all’Argentiera, zone interne del Nuorese e mare del Sassarese. Ma il nocciolo è qui, nella valle che da Iglesias porta al mare, innervata sui due lati da archeologia industriale e tanti detriti, quelli grigi meno inquinanti, quelli rossi a rischio. E poi avanti, nelle valli sul mare, fino alle spiagge da cui si imbarcava, con i barchini di Carloforte senza chiglia, il minerale estratto. Nomi noti per chi ama la bellezza di questi posti: Funtanamare, Nebida, Masua, Buggerru, Ingurtosu, su fino ad Arbus. E giù fino a Fluminimaggiore.

Masua è il cuore di tutto. Per la bellezza dell’ex miniera al centro di una valle di duecento ettari che scivola verso il mare attraverso due spiagge. E perché lì sono arrivati a fine agosto decine di carabinieri inviati dalla Procura di Cagliari per sequestrare tutto ciò che può essere utile a far luce su questo scandalo. Operazione Geo & Geo. Quattro indagati, una ex mensa affidata al Cral degli ex minatori di Nebida, presieduto proprio da uno degli indagati, Marco Tuveri, autista del presidente e sindacalista Uil, che non funzionava da dopolavoro: dentro c’era un deposito di taniche di gasolio che, secondo gli inquirenti, venivano regalate ai dipendenti amici per rafforzare quel “cerchio magico”. Oppure vendute per arrotondare lo stipendio. I carabinieri hanno trovato 52 lattine da 35 litri. Una scorta, dice l’azienda. Un mercato nero, dicono numerosi testimoni, tra i quali i quattro autori delle denunce anonime, documentate anche con foto e video. E confermate da un numero: quei 645 litri di gasolio consumati ogni giorno da un’azienda che appare immobile. Non bastano a giustificare questi consumi tutti quei pick-up Toyota a disposizione di capi e capetti 24 ore su 24, festivi compresi.

I “jumbo” finiti a lavorare in Marocco
Così racconta Francesco Carta, segretario regionale Cgil chimici e minatori. Così raccontano gli operai non compromessi nei vari traffici, protetti dall’anonimato: chi non è connivente è costretto a un silenzio omertoso. Si racconta di straordinari fatti fare solo ad alcuni, mandati il sabato e la domenica a far biglietti alle miniere aperte al pubblico. Fino al 27 settembre, quando sono state chiuse per mancanza di soldi, come recita l’home page del sito Igeaspa. it. O di una diaria conquistata una volta per un lavoro fuori sede e diventata voce fissa del salario dopo il ritorno a casa. E di qualche traffico più grosso. Come quei due jumbo, gigantesche macchine per scavare miniere, venduti come ferrovecchio insieme ai resti arrugginiti della miniera e poi finiti, dopo un breve passaggio in officina, a lavorare per aziende sarde in Marocco. E qualcosa di più piccolo: un appalto senza gara per un muro realizzato a Nebida che sembra servisse non tanto a Igea quanto a Daniela Tidu, compagna di Marco Tuveri, assunta al Geoparco e co. co. pro. in Igea. Anche lei indagata.

E poi c’è quella storia delle elezioni comunali di Iglesias che mette in comunicazione la fascia bassa del malaffare con quella alta, con la politica. Una storia che ha convinto la Procura ad aggiungere ai reati di peculato e turbativa d’asta anche quello di voto di scambio. Quel gruppo di potere interno avrebbe contato i voti – alla fine sono stati 343 – che riusciva a portare a un proprio candidato, Marco Zanda, dipendente Igea, nella lista civica Pozzo Sella, di ispirazione Udc. Tuveri, una potenza in Igea secondo la Procura, voleva pesare la propria forza in vista delle regionali. L’Udc è il cuore politico di tutto. A partire dal suo uomo forte nell’Iglesiente e in tutta l’isola: Giorgio Oppi. E l’amministratore unico di Igea, da lui scelto, il democristiano di lungo corso Giovanni Battista “Bista” Zurru, sulla cresta dell’onda senza interruzioni dagli anni Settanta. Igea è territorio Udc, come è territorio Pdl il Parco Geominerario, il consorzio che dovrebbe orientare prima e gestire poi la bonifica e la trasformazione delle ex miniere in zone ad alta vocazione turistica e culturale. Antonio Granara, assicuratore cagliaritano, ne è il commissario. Nei suoi uffici sono stati sequestrati documenti e computer.

Da Il Fatto Quotidiano del 30 ottobre 2013

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