Lea Garofalo è stata una donna coraggiosa: stanca di vivere fin dall’infanzia in un contesto di ’ndrangheta, ha rotto con il marito e con la famiglia di origine ed è diventata testimone di giustizia. Scelte che ha pagato con la vita. Il 24 novembre del 2009 è stata infatti sequestrata, uccisa con un colpo di pistola e bruciata. Di lei sono rimasti 2.800 frammenti ossei, in tutto un chilo e trecento grammi. Per l’omicidio sono stati condannati all’ergastolo quattro uomini. Tra loro Carlo Cosco, ex compagno della donna e padre della figlia Denise

La vicenda di Lea Garofalo – che racchiude in sé molte contraddizioni della società italiana – viene raccontata con cura e passione da Marika Demaria, giornalista del mensile Narcomafie e referente dell’associazione Libera per la Valle d’Aosta, nel libro La scelta di Lea. Il testo sarà in libreria dal 19 ottobre, giorno dei funerali pubblici di Lea Garofalo a Milano, e ripercorre gli anni difficili e solitari del programma di protezione, le testimonianze sui traffici di stupefacenti e gli omicidi tra Calabria e Lombardia, le arringhe degli avvocati difensori, la testimonianza della figlia Denise (ora sotto protezione) contro il padre, gli zii, il fidanzato.

Dall’inchiesta di Demaria emerge una realtà fatta di criminalità organizzata e dubbia presenza dello Stato. Lea Garofalo e la figlia Denise, hanno infatti goduto della protezione testimoni per alcuni anni, ma nel 2006 sono state espulse. Dopo aver fatto ricorso al Tar sono state reintegrate ma dopo qualche mese sono uscite per volontà di Lea. “Una decisione difficile, sofferta, dettata dall’amarezza, dallo sconforto per avere capito che la sua coraggiosa scelta non ha portato a nulla, se non alla vita solitaria – si legge nel libro. – Le dichiarazioni di Lea non sono state la miccia per innescare un processo, per vedere i Cosco dietro le sbarre. Niente di tutto questo”. Come ha spiegato Enza Rando, avvocata di Libera, nella deposizione,“Lea lamentava che a volte quelli del Nop (Nucleo operativo di protezione, nda) la trattavano come una mafiosa, mentre lei era una testimone di giustizia e non aveva commesso reati. In generale era stanca della vita durante il programma per i continui cambi di città. E poi si era sentita molto amareggiata e tradita per il fatto che, dopo la non ammissione al programma definitivo, le avevano detto che entro quindici giorni avrebbe dovuto lasciare la casa. Era disperata. Non sapeva dove andare”.

Nell’inchiesta della giornalista di Narcomafie non mancano i particolari inquietanti. Come quello che riguarda un episodio avvenuto il 20 novembre 2004, quando Lea e la figlia erano ancora nel programma di protezione. Gennaro Garofalo, un lontano parente, molto amico di Vito Cosco (fratello dell’ex compagno di Lea, condannato anche lui all’ergastolo), “va alla stazione dei carabinieri di Lissone, nella provincia di Monza e Brianza. Non deve sporgere denuncia. Non deve prendere servizio. O perlomeno non più. Il ragazzo era infatti un ausiliario dei carabinieri, ma si era congedato tre giorni prima”. Va lì con la scusa di un saluto e “riesce ad utilizzare il pc di un collega, impegnato in un’operazione esterna, per cercare la città dove vive Lea inserendo la password che era stata appuntata su un’agenda riposta in un cassetto non chiuso a chiave”. 

Nel testo appare in continuazione l’ombra della ‘ndrangheta anche se, come scrive Nando dalla Chiesa nell’introduzione, durante il processo “non è stato contestato l’articolo 416 bis del codice penale, l’associazione di stampo mafioso. Davvero è stato un delitto privato, interno a una famiglia che si è sentita disonorata?”. Certo, Lea è stata una donna che ha affermato il proprio diritto all’indipendenza, contestando anche la patria potestà, portandosi via la figlia. Ma la sua è stata una vicenda privata? Secondo dalla Chiesa “si è affacciata in realtà nel processo una tendenza piuttosto diffusa nella magistratura settentrionale. E cioè la convinzione del fatto che per condannare per associazione mafiosa al nord occorrano più elementi di quanti ne occorrano nelle regioni a insediamento tradizionale. Quasi che fatichino a svanire i vecchi pregiudizi secondo cui ‘qui la mafia non esiste’ o ‘qui non si fanno le stesse cose che al sud’”.

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