Mio nonno, il papà di mio papà, si chiamava Onelio. Ma non era davvero il papà di mio papà. Io l’ho saputo in un modo talmente strano che non mi sembra neanche vero. Stavo girando per il cimitero di Sant’Ilario d’Enza, ero piccolino, avrò avuto sì e no 10 anni, quando mia nonna all’improvviso mi ha segnato una tomba e mi ha detto: “Coll lé l’è to non’!”. Io, guardando la foto, le ho risposto: “Nonna, ma sei fuori? Il nonno è sepolto a Taneto!”. E lei, come se niente fosse: “No, no, to non’ vér l’è coll lé!”.

Io non son stato lì a guardarlo più di tanto. Per me, mio nonno è sempre stato nonno Onelio, che, tra l’altro, non me lo ricordo neanche perché è morto quando avevo solo un anno. Gli ho voluto bene come si vuol bene a un nonno grazie a una foto, che mia nonna teneva sul comò, in camera sua. Me la ricordo sempre bene, la foto, anche adesso, dopo anni che non la vedo: capelli bianchi, un bel sorriso, una faccia rotonda, da buono. Era vestito “della festa”, nella foto, e portava una cravatta lucida, grigio perla, bellissima. Secondo me era un primo piano scattato al matrimonio dei miei genitori, perché il vestito era lo stesso. Si vede, nella foto, che lui era contento.

L’altro giorno ho chiesto a mia sorella, che ne sa più di me, se il nonno era comunista, e lei mi ha dato una risposta che mi ha un po’ deluso: “No, secondo me, durante la guerra il nonno non era niente, era un po’ un fifone…”. “Ma dai, davvero?”. E lei, ancora: “Sì, la nonna raccontava sempre che lui aveva paura quando c’erano i bombardamenti. E aveva paura dei fascisti. La nonna mi ha anche detto che, dopo la guerra, lui aveva aderito allo Psiup, il partito in cui militava Ercole Pisi. Il nonno era molto amico di Pisi, che è stato per tanti anni il nostro sindaco. Poi il nonno, dopo un po’, è morto”.

Io non posso credere che il nonno fosse un “fifone”. Forse sono io che ho il ricordo della foto e lo vedo così buono. L’ho considerato un coraggioso da quando ho saputo che aveva sposato una ragazza madre, mia nonna. Ai tempi del fascismo una ragazza madre era tagliata fuori da tutto e da tutti, perfino dai preti che non la volevano neppure in chiesa perché la ritenevano l’ultima delle peccatrici. Mia nonna se ne vergognava molto, ma lui ha avuto la forza di non farsi condizionare, sposandola lo stesso e riconoscendo mio papà come figlio suo.

Poi, adesso, che sto raccogliendo delle storie del mio paese, ne ho saputa un’altra e sono ancor più sicuro che mio nonno non era mica tanto un fifone.

La famiglia di mio papà, durante il fascismo e durante la guerra, abitava alla Bertana. “S’érem casànt – mi racconta mio padre -. A lavoréven tutt’al dì e al padrón a s’déva un po’ ed roba da magnèr e ’na péga da fam”. Allora funzionava così. Un po’ di raccolto, farina, qualche uovo e una misera paga a fine mese. Il padrone del fondo si chiamava Achille Manfredi. Era un fascista, ma mio padre mi dice che era buono e che spesso proteggeva tutti i suoi casanti. Suo fratello si chiamava Dante Manfredi, oggi nome della Via che va dal crocile di Taneto fino a Sant’Ilario d’Enza. È proprio perché leggo sempre il nome di questa via che mi sono incuriosito e ho chiesto in giro chi era Dante Manfredi. 

All’inizio, prima di saperne di più, pensavo che fosse un partigiano, come quelli di Via F.lli Rosselli o Via Athos Tedeschi o Via Tonelli o Piazza 7 fratelli Cervi, tutta gente che abitava nel mio paese. Invece no. Dante Manfredi non era un partigiano, era un fascista. Un fascista ucciso dai fascisti. È qui che la storia diventa complicata. E lo è ancor di più perché sui libri di storia si trova scritto poco o niente, e chi ricorda non vuole raccontare.

In quei giorni, dopo l’8 settembre 1943, era successo di tutto nel mio paese: erano state uccise delle persone, da una parte e dall’altra. Alcuni dei protagonisti di quei giorni sono ancora vivi, sono vivi i loro figli, ed è passata una vita intera da allora. Alcuni sono miei parenti e io voglio comunque bene a loro. Ma mi sento di dover raccontare, indipendentemente dal fatto che uno fosse mio nonno, un altro l’altro nonno, uno un mio bisnonno e un altro ancora una carissima persona che stimo molto. Mio papà non vuole che io racconti, si raccomanda, però non so cosa rispondergli, perché so solo che ho cominciato a scrivere e voglio andare avanti, pur non mancando di rispetto a nessuno. Provo a spiegargli: “Papà, secondo me, senza la storia noi non siamo niente. Cert lavór bisogna cunteria…”.

6 novembre 1944 – Praticello (Gattatico) 
Partigiani della pianura assaltano il presidio della GNR e dell’Aeronautica a Praticello. I fascisti rastrellano il paese, arrestando 31 persone e uccidendone 3: i partigiani Aminto e Ovidio Gennaroli e il “civile” Dante Manfredi (dall’Archivio Istoreco).

Questo è tutto quel che ho trovato. Sembra poco. È poco. Ma a spiegarlo ci vorrebbe un libro intero.

Tanto per cominciare, Dante Manfredi non era un “civile” qualsiasi. Era stato podestà per circa quindici anni a Gattatico, durante il ventennio, e aveva ricoperto anche importanti cariche nel partito fascista reggiano. Era una persona molto considerata e – da quel che so – anche molto stimata. Però Dante Manfredi, dopo l’8 settembre, non aderì alla Repubblica di Salò, non stette tra i seguaci di Mussolini ed ebbe anche l’ardire di dichiararlo: questo in paese lo sanno tutti. L’episodio che si ricordano meglio è che Dante Manfredi cercò in tutti i modi di impedire a suo figlio e ad altri due ragazzi di Taneto, anch’essi giovanissimi, di raggiungere Salò… I ragazzi, subito dopo l’armistizio, probabilmente sentendosi traditi dal re, erano scapparti dal paese per tentare di unirsi ai repubblichini. Dante Manfredi – da quel che ho capito, e com’è naturale che sia – era, prima di tutto, un padre e quindi non credo che cercò di fermarli soltanto perché non era d’accordo “politicamente” con loro. Secondo me – e lo dico senza saperlo – lui aveva paura che succedesse qualcosa a suo figlio. I tre ragazzi avevano meno di 20 anni; anzi, mi pare che non ne avessero compiuti neanche 18, e lui sapeva bene i rischi che correvano.

(continua…)

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