Stamattina, in posta privata, trovo la mail di un lettore di Sangue di cane. Sono sorpresa perché il romanzo oramai è uscito da tre anni. Il lettore dice di avermi scoperta qui nel blog del Fatto. Alla fine della mail, mi chiede: è tutto vero quel che ha raccontato nel romanzo? Ho risposto sì, caro lettore, è tutto vero. C’è una ragione dietro un romanzo? Ce ne sono mille, ce ne sono sempre. Sono geneticamente una slavofila, ancor prima di incontrare i personaggi del mio primo libro, ho amato i russi, la loro musica, i film di autori balcanici e questo per inciso.

Poi è accaduto il giro di boa, una svolta epocale direi. Era la metà degli anni ’90 quando ho incontrato i semaforisti. Portatori di un dolore storico, l’ho capito dopo, i semaforisti erano giovani dell’est, senza fissa dimora, chiedevano soldi ai semafori, perciò i semaforisti. Vivevano nelle case occupate, bevevano, morivano sempre. Erano polacchi, bellissimi polacchi di sconosciuti paesi rurali, erano gli uomini fantasma che attraversavano le frontiere a piedi o in ducati furtivi, traducevano la colpa di un Occidente pigro, distratto, con la pancia piena.

Sangue di cane’ racconta la storia d’amore tra un semaforista e una donna italiana, nessuna pretesa, nessuna lotta di classe. Il lettore in mail scrive di essere turbato. Lo fui anch’io allora, quando mi imbattei in un fenomeno immane che segnò la storia, raccontandocene un pezzo inaudito, spaventoso per certi versi. Non raccontavo soltanto quella Polonia ubriaca, sfinita dalla miseria morale, i suoi aborti, tuttavia provate a leggere Kazimierz Brandys, la sua Polonia, non era poi così distante da quella che intercettai da qui, nel mio sud, nel mio piccolo irretito mondo di provincia, benché io raccontassi una retrovia oscena e maledetta.

Tutto quel che ho scritto (anche qui nei post) è sempre e soltanto scritto nella carne, dunque immaginatemi in mutande davanti a un auditorio, vergognata eppur indefessa. Il lettore scrive di essere turbato, scrive che è un libro terribile. Fu terribile anche per me, allora, riconoscere quegli uomini ancora tali. Ce n’era uno, lo chiamavano Jaruzelski – proprio come il generale polacco – non aveva vent’anni e già non camminava più per la cancrena alle gambe e anche le braccia erano nere e gonfie, a causa dell’alcol. Andava in epilessia (etilica), era spacciato. Non aveva neanche più una faccia, niente di umano. Era una guerra che si combatteva ogni giorno, il mondo non lo sapeva. Così tutto è scritto nel sangue e nella carne, mi sento una testimone, ho raccontato, ho pagato il mio pedaggio, credetemi. Ho realizzato adesso che non potevo sottrarmi alla responsabilità, o al destino. Era un fatto, era ineluttabile, come l’amore.

 

 

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