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Se Pessoa avesse avuto Facebook

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L’urgenza, la diffusione, l’onnipresenza dei social network e il modo in cui essi hanno attecchito nell’incavo della psiche umana in modo anatomico apre a quesiti che affondano nella terra dell’ancestrale.  L’umanità, creatura mostruosa dalle infinite teste, eternamente cangiante, tanto impegnata nell’evoluzione della forma quanto ostinata nel perpetuare la sostanza, sembra aver riversato, in questo inizio di millenio, l’ incertezza profonda del vivere in queste tecnologie a specchio. 

Che si tratti di specchi deformanti, affabulatori, ingannevoli, non è un effetto collaterale dei social, quanto piuttosto l’essenza stessa di queste protesi virtuali dell’identità. Fernando Pessoa nel suo “Libro dell’Inquietudine”( Bibbia per tutte le anime malinconiche, abuliche, tormentate, tediate ed ovviamente inquiete, la cui lettura solleva immediatamente dalla convinzione dell’unicità della propria sofferenza) declina in frammenti di testo apparentemente distinti, l’imperituro dilemma “Vivere o immaginare”: rispetto al potenziale delusivo, frustrante, ammorbante della vita reale, la scelta di privilegiare l’immaginazione e sfruttare la possibilità che essa offre di disegnare la realtà ad immagine e somiglianza dei propri desideri, costituisce inevitabilmente un dubbio degno di aggiogare la mente umana.

“La vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente. E’ un viaggio dello spirito attraverso la materia, e poiché è lo spirito che viaggia, è in esso che noi viviamo. Ci sono perciò anime contemplative che hanno vissuto più intensamente, più largamente, più tumultuosamente di altre che hanno vissuto la vita esterna. Conta il risultato. Ciò che abbiamo sentito è ciò che abbiamo vissuto. Si ritorna stanchi da un sogno come da un lavoro reale. Non si è mai vissuto tanto come quando si è pensato molto. Colui che sta in un canto del salone balla con tutti i danzatori. Egli vede tutto e, dato che vede tutto, vive tutto. E poiché tutto, in fin dei conti, è una nostra sensazione, tanto vale il contatto con un corpo come la vista di esso o come il suo ricordo. Io ballo quando vedo ballare.”

Ed ecco che le immagini, le parole, le relazioni di un mondo virtuale, che colonizzano la nostra sfera percettiva fino al punto d’incarnare una realtà possibile, diventano la traduzione contemporanea dei corpi che ballano, attraverso i quali siamo contemplativamente trascinati nella danza. L’universo della rete e i codici comportamentali che essa consente, con la possibilità che offrono di trafugare al mondo le sue parti migliori per autoritrarsi nelle sembianze dell’identità che si sarebbe voluto avere, e anche con l’imperdibile chance di rifuggire l’inquinamento e la mediocrità che opprimono il mondo reale in assenza di filtri, sostituiscono, ipoteticamente, la figura del pensatore-sognatore che privilegia la purezza dell’immaginazione alla promiscuità della vita vera.

In questa lettura, il profilo che l’utente si crea sul social network, spesso in buona parte viziato e fasullo, non diventa altro che l’antidoto alla velenosa discrasia tra aspettative e realtà. Un fil rouge sembra dunque tenere insieme i dilemmi della letteratura di ieri con la compulsività da web di oggi: davanti all’ambivalenza e alla frequente ingiustizia di una realtà beffarda e troppo spesso incoerente, l’essere umano si avvale dell’intelletto per dar vita ad una bolla di sapone che gli consenta quel tanto di alienazione necessaria per sopravvivere. Più affina l’immaginazione, più si discosta dalla verita. 

Eppure anche questa e’ un’arte.  Diceva Pessoa:”Dicevano gli argonauti che navigare è necessario, ma che non è necessario vivere.” Vivere o ‘navigare’ dunque?

Che la scelta ci sia lieve.

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