Qualche pagina e la sensazione è che qualcosa cambierà dentro durante il percorso interiore fatto di parole scritte che  porteranno al foglio finale. Finisce un libro, nasce una certezza:  il destino dell’uomo sarà tragico se non cambia il suo modo di vivere.

Una volta letto “Il paradosso della civiltà” di Roberto Cazzolla Gatti, biologo ambientale ed evolutivo, non si può continuare tranquillamente a sopravvivere facendo finta di vivere, troppo tardi, non è più possibile non portare alle soglie della consapevolezza ciò che l’essere umano in fondo già conosce, ma ha imparato tanto bene a rinnegare. In questo libro le parole pulsano e pompano sensazioni forti al cuore quasi vi fluissero insieme al sangue, merita di essere letto e di rimanere sempre nelle vicinanze come ricordo e monito.

La vita di due esseri umani, Mathaar e Tommaso, raccontata in parallelo dalla nascita fino alla morte.

Mathaar è un pigmeo che vive con la sua tribù nelle foreste  del Congo, in perfetta armonia con la Natura (la Grande Madre), in un rapporto di reciproco rispetto che dona un vivere pieno e denso di significato in ogni più piccolo gesto. Una vita che nessuno di coloro che leggeranno il libro potrà mai conoscere, ma solo immaginare attraverso il racconto.

Tommaso è un italiano che nasce e cresce a Torino figlio di un operaio completamente schiavo del suo lavoro e che assorbe tutto quello che la società civilizzata è in grado di fornirgli. Una vita che molti di coloro che leggeranno il libro conoscono invece fin troppo bene.

Ci insegnano che il lavoro nobilita l’uomo quando, in realtà, il nobile era tale proprio perché non lavorava ed è solo uno delle tante finzioni che potrebbero essere svelate con la semplice logica, se mai volessimo tornare a farne un uso indipendente. In questo periodo storico di crisi e precariato pensiamo che sia un nostro diritto lavorare, ma ascoltiamo le parole di Silvano Agosti ne “Il discorso tipico dello schiavo” e constatiamo che siamo ormai assuefatti a ragionare come degli schiavi appunto.

Il parallelo tra la vita di Mathaar e di Tommaso è una lama che affonda nello spirito, evidenzia chi eravamo e chi invece oggi siamo diventati, un confronto dal quale usciamo annientati.

Il libro getta la maschera alla civiltà che utilizziamo come sinonimo di progresso, benessere e buone maniere, ma è solo un deragliamento dal binario del nostro vero essere, il più efficace inganno che l’uomo ha compiuto su sé stesso.

Ho sempre pensato alla felicità come ad un concetto astratto, lontano dalla realtà, nella vita ho sempre ritenuto opportuno parlare di equilibrio e salute mentale. La felicità non è che uno stato transitorio che non può essere raggiunto che per momenti, non è un qualcosa di stabile, la vita è troppo piena di cose che ci allontanano da un vivere privo di preoccupazioni e difficoltà. Leggendo questo libro ho cominciato a capire che invece la felicità esiste, ma l’uomo ha dimenticato come si fa ad essere felice per privilegiare l’avere a scapito dell’essere e mai privilegio fu pagato a più caro prezzo.

Abbiamo iniziato a produrre per consumare e ci ritroviamo a consumare per produrre e lì in mezzo a questo passaggio abbiamo perso noi stessi.

La tribù di Mathaar vive felice, non conosce il tempo, il dolore esistenziale, la paura della morte e le innumerevoli malattie e angosce del progresso, le basta niente per avere tutto, ma siamo noi a considerare il loro tutto come niente.

Tommaso non vive felice, conosce il tempo, il dolore esistenziale, la morte e le innumerevoli malattie ed angosce del progresso, non gli basta tutto quel che ha per avere qualcosa che non sia  niente. Siamo noi a considerare il suo niente come tutto ciò che possiamo avere. Leggendo della sua storia qualcosa muove il cuore, non ci può non immedesimare in lui per un qualche aspetto. Alla lunga la sua sofferenza si sfoga generando sofferenza per altri e quante volte è successo anche a noi senza che ce ne accorgessimo? Quanta violenza verso il prossimo nasce dalla violenza che noi per primi ci infliggiamo?

In un passato lontano vivevamo anche noi come Mathaar, sembra impossibile oggi, ma un tempo eravamo ricchi solo di relazioni umane e rapporto con la natura.

Finito il libro mi sono chiesto come posso, io singolo, fare qualcosa per recuperare dall’antico e riadattarlo al presente, come posso, attraverso il senso della perdita, che ho vissuto tra queste pagine, dare avvio ad un senso del recupero?” Mi sono sentito  impotente, solo e scoraggiato, ma poi casualmente mi sono imbattuto in questa favola africana:

“Durante un incendio nella foresta, mentre tutti gli animali fuggivano, un colibri volava in senso contrario, con una goccia d’acqua nel becco. “Cosa credi di fare?” gli chiese il leone. “Vado a spegnere l’incendio!” rispose il colibrì. “Con una goccia d’acqua?” disse il leone, con un sogghigno ironico. E il colibrì, proseguendo il volo, rispose: “Io faccio la mia parte”.

Articolo Precedente

Manoscritti nel cassetto 32: racconti di pesca (Nicholas Guirich)

next
Articolo Successivo

Volontari al Festival di Mantova, valanga di richieste. “Molti disoccupati”

next