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Wojciech, il polacco orgoglioso

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Ride. E’ Wojciech, chiede spiccioli. Lavori? chiedo. No, qui ‘taliani dicono mau mau, spiega. Non sei in mensa? chiedo ancora. Siete tutti uguali, ammetto. Siamo animali, dice.

Davanti al centro di accoglienza, lo slavo gli sta di fronte. Lo colpisce per primo, lo lascia a terra, il connazionale Leszek lo incita, dai dagliene un’altra, un’altra, urla. Wojciech lo fa, una due tre volte, colpisce con le mani, non usa i pugni. Non usa armi. Lo slavo sta a terra, impreca o supplica, non capisco. Wojciech lascia perdere. Basta, odejdzie ból w dupie. Rompicoglioni, sibila. Conosco Wojciech, non smetterò mai di raccontare uomini come lui.

Ricordate, lo avevamo lasciato in mensa. Aveva il viso rovesciato, la schiena rivoltata, una serpe, con la schiuma alla bocca. In mensa con un piatto di trippa davanti e il corpo squassato dall’epilessia. Gli astanti inorridivano, non tutti a dir la verità.

Racconterò di Wojciech, come Maciej, l’uomo morto tre volte. Sempre noiosissimo lutto quel che atterriva le gesta di questo popolo, un’assurda claudicante chanson di negletti, molto meglio che parlare d’amore. Maciej lo davano spacciato tre volte, una sotto un treno, e non era vero, una in un cpt e non era, la terza non ricordo. E forse era vero. Mentre Wojciech il polacco faceva a botte.“Nie ma, kurwa” gli urlava qualcuno. Erano connazionali, li aveva trovati davanti a un supermercato. Trovati, scovati. Litigavano per cose misere, pochi spiccioli, un cartone di vino, una ciotola di rognosi centesimi lasciati da qualche avventore distratto, irretito dal loro cattivo odore.

Tutte le volte ne trovava qualcuno e tutte le volte erano botte da orbi. Uomo impossibile. Doveva difendere sempre un’idea, una kurwa, una donna di strada, e finire coi coltelli o con le mani e poi in questura o peggio in guardiola al pronto soccorso. Questo era Wojciech. Alzava il pugno contro un poveraccio, un austriaco vestito di cenci che dimorava nelle grotte. I connazionali davanti al supermercato blateravano, quindi rotolavano – ridendo – contro qualcosa, i denti sporchi di sangue o vino. E la gente passava di fretta, temendo un contagio di non so che tipo, la loro brutalità. Un anziano berciò con astio tutta la sua paura: pusillanimi, via, tornate a casa vostra.

Allora gli prese l’inutile orgoglio, e da giù, dalla sua fossa, Wojciech gli intimò di chiudere il becco: vecchio, tu conosci i polacchi? Strisciava con le mani luride davanti le porte del supermercato e cantava Mury, che per Woiciech era Solidarnosc. 

(continua)

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