Forse pochi se ne sono accorti. Ma ieri è andato in onda il più bello spettacolo televisivo della stagione: la diretta della tappa a cronometro del Tour che si concludeva a Mont Saint Michel. Non tanto per l’aspetto agonistico, che pure ci ha messo del suo con lo specialista Martin che, ancora dolorante per le ferite della prima tappa, fa una performance strepitosa verso mezzogiorno e poi deve aspettare cinque ore per sapere che ha vinto. La maglia gialla Fromm, partito fortissimo, in prima posizione fino al secondo intertempo, ha ceduto nel finale e si deve accontentare del secondo posto, lasciando peraltro molto indietro i suoi rivali diretti in classifica.

Il fatto è che tutta questa emozionante vicenda si svolge in un panorama incredibile dominato dall’abbazia e dalla collina che ne porta il nome, circondate da quell’insieme di oceano e di terra che le maree compongono. Lo inquadrano costantemente le telecamere, prima dall’alto, dall’elicottero, poi frontalmente con la telecamera mobile che segue i ciclisti man mano che si avvicinano al traguardo. Ma l’inquadratura più straordinaria è quella che viene proposta seguendo la corsa di Contador a una decina di chilometri dall’arrivo. Siamo su un rettilineo pianeggiante, in aperta campagna e sullo sfondo il Mont Saint Michel appare lontano ma riconoscibile pur sfumato, scontornato, avvolto in una leggera foschia. Sembra di essere al Musée d’Orsay davanti a un quadro dei grandi impressionisti più che davanti a un teleschermo, sembra di essere in una famosa novella di Maupassant. Bisogna aggiungere che per una volta si deve parlare bene della Rai, che ha inserito tutto questo in un contenitore gradevole: uno studio con pochi ospiti, un conduttore discreto, Bulbarelli, un ospite fisso, competente e signorile, Beppe Conti, vecchie glorie del ciclismo che si alternano uno alla volta a commentare preziosi e pertinenti reperti del passato scovati nelle teche. Il tutto a far da cornice alla telecronaca sempre puntuale, mai ridondante e ai servizi di costume realizzati dall’inviata Alessandra De Stefano. Ora che per la prima volta dopo tanti anni dobbiamo fare a meno dei mirabili pezzi di Gianni Mura su Repubblica, gli interventi della giornalista Rai un po’ ci consolano. Certo non toccano le vette di originalità e di conoscenza del territorio, della storia e della gastroenologia in cui Mura è irraggiungibile, ma in certi casi, come nella rievocazione della vicenda del selvaggio dell’Aveyron, piena di citazioni truffautiane, riescono a emozionarci profondamente.

Detto questo, non certo per amore di polemica, ma di verità, non si può evitare un interrogativo. Perché la stessa emozione visiva, la stessa magia non nasce, o almeno non nasce così intensamente e di frequente, nel corso del Giro d’Italia? Certo non è un problema di paesaggi naturali o artistici di cui l’Italia è altrettanto, se non ancor più, ricca. Forse c’è una componente metereologica (quest’anno per esempio le tappe che attraversavano i paesaggi più spettacolari sono state funestate dal maltempo), ma temo che ci sia anche dell’altro. Un arrivo in quelle che sono le Mont Saint Michel italiane, tra gli scavi di Pompei, sotto i templi di Paestum, ai fori imperiali, una crono al Lido di Venezia sono difficilmente compatibili con varie volontà ed esigenze logistiche, organizzative ed economiche. Ancora una volta dobbiamo osservare come non ci manchino certo i beni culturali, ma come sia difficile la loro valorizzazione, anche in un contesto molto favorevole, all’interno di un grande racconto popolare qual è una corsa ciclistica a tappe. 

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