Tutti conoscono l’incipit di uno dei ‘classici’ di G. Lukacs, Teoria del romanzo: vi è un rapporto direttamente proporzionale tra il venir meno della compiutezza totalizzante del mondo greco e il graduale estinguersi dell’epica come genere letterario; il saggio in questione viene concepito nell’estate del 1914 per essere steso nell’inverno 1914-1915 e pubblicato per la prima volta nel 1916.

Dopo la sua morte acclarata, può risorgere l’epica? Certamente la condizione della nostra contemporaneità radicalizza ulteriormente quel processo che nella seconda decade del Novecento il giovane Lukacs aveva denunciato come ‘crisi dell’epica’: viviamo in un momento storico totalmente destrutturato, in cui “il firmamento” invocato dal filosofo ungherese per “tracciare la mappa delle vie accessibili”, “rischiarandole alla luce delle stelle”, è diventato ancor più problematico. La luce sembra essere scomparsa per sempre e, nel suo venir meno, trascinare anche il genere epico.

Ciononostante, squarci epici sono ancora ravvisabili, anche se non hanno nulla di letterario. Si pensi, per esempio, all’imminente festival “Popsophia” dedicato al tema eroi e antieroi con una serata concernente la “Filosofia del campione”.

Infatti, alcuni grandi giocatori – come Totti (Roma), Zanetti (Inter), Del Piero (Juventus) – non hanno mai cambiato maglia sportiva, sottolineando la condizione di un’appartenenza ‘forte’, pregnante, vissuta all’insegna di quell’amore-passione, il grande paradigma del Tristano e Isotta che, in pagine memorabili, Denis de Rougement ha applicato anche al calcio. E, dall’altra parte, il contemporaneo antieroe è forse colui che fa del cambiamento della maglia il suo stile, la sua cifra professionale, ossia Ibrahimovic? Ma non è forse troppo semplificata questa contrapposizione, dato che comunque, in entrambi i casi, a risultare decisivi sono i contratti dal punto di vista economico straordinari e persino insultanti in tempi di grave crisi come quelli che stiamo vivendo?

Forse può essere considerato un ritorno a un’epica sia pure distorta il caso dell’ex presidente interista, Giacinto Facchetti, accusato post mortem e, dunque, reo senza aver avuto neppure la possibilità di difendersi? Può essere considerata epica una morte senza redenzione quale quella di Giacinto Facchetti, la vittima predestinata cui il nostro sistema-calcio ha affidato la soluzione di tutti i conflitti, i contenziosi aperti? Non è dunque epica una morte senza redenzione, annunciata proprio come quella dell’Accattone pasoliniano, che trova riscatto solo nelle note Coro n. 68 della Passione secondo Matteo bachiana? Non sono altrettanto epiche quelle morti di cui nessuno parla, che raramente appaiono nelle cronache dei quotidiani di informazione, le morti sul lavoro, che le nostre società tendono a oscurare, rimuovendole molto rapidamente come fossero irrilevanti se non addirittura necessarie all’equilibrio del sistema?

E bagliori di epicità, per tornare al calcio, non sono forse i goal che, squarciando il contiunuum prestabilito e cristallizzato dello spazio-tempo, accompagnano e ricompongono un modello di temporalità totalmente fluida? Questi bagliori di epicità non possono essere chiariti dalla nozione heideggeriana dell’evento e da quella di ‘tappeti musicali’, di cui parla Ernst Bloch nel capitolo musicologico di Spirito dell’utopia?

Il ritorno a un’epica eroica non mediata letterariamente ma scandita da atti , tragedie e momenti di eccezionalità è dunque possibile a patto di non fissare regole, di non costruire codici normativi aprioristici, perché i campioni-eroi o gli eroi-campioni sono figure divenute sempre più problematiche e la filosofia, come ricorda il giovane Lukacs nella prima parte di Teoria del Romanzo, citando Novalis, se “è propriamente nostalgia”, ossia “l’impulso a sentirsi ovunque a casa propria”, è l’unica in grado di far luce su tale complessità.

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