Vi è mai capitato di entrare in uno di quei piccoli club del jazz di periferia, andando a sentire uno sconosciuterrimo gruppo musicale suonare dal vivo? A me sì. Alle volte si è fortunati e la band offre uno spettacolo di tutto rispetto, fra pezzi originali e cover assai decenti. Altre, ci si imbatte in un dopolavoro di amici dalle ottime intenzioni, che però possono offrire solo molta buona volontà e tante stonature. Questo è un po’ quanto mi è successo leggendo il primo romanzo di Paolo Rigo, Littoria Blues City (Edizioni Il Foglio, 2012, 14 euro). Un blues ricco di note stonate che però, qui e lì, fa intuire che dietro c’è una forte passione per la scrittura e una capacità di raccontare che, nel tempo, può solo crescere e migliorare.

Il problema è che se per scrivere basta senza dubbio la passione, per pubblicare occorre un minimo di struttura. La prima struttura deve essere anzitutto linguistico-grammaticale: occorre conoscere senza tentennamenti la lingua e la grammatica italiana per poterle usare bene e permettersi magari qualche licenza narrativa, qualche comparazione azzardata ma originale. La seconda struttura che occorre è quella narrativa: ci vuole una trama, ci vogliono dei personaggi diversi tra loro, in grado di esprimersi ciascuno a modo proprio, mettendo in campo voci diverse e però tutte credibili, appropriate o per lo meno avvincenti. Ci vuole, inoltre, un certo talento nel mettere su dei dialoghi che siano lunghi il giusto – e quindi corti, ché la gente quando parla non fa monologhi, e se ci prova alla lunga viene interrotta – ma non per questo inesistenti.

Purtroppo, molti di questi elementi Littoria Blues City non li ha. Siamo nel campo del romanzo in racconti, un genere, va detto, sempre difficile per un’opera prima, nel quale solo grandissimi nomi hanno eccelso; penso all’immortale Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli. In Littoria Blues City incontriamo Sal, giovane protagonista di tutte le novelle, sballottato tra Roma e una Latina chiamata col suo nome originale fascista, Littoria. La scelta di questo nome parlante fa capire come Sal, alter-ego di Paolo Rigo, viva e “ami” Latina. Da morire, e da morirne.

I racconti sono narrati in prima persona singolare da Sal, che si rivolge al lettore come in una confessione: dalla vita quotidiana a Roma, seguendo uno stile bukowskiano e da poeta maledetto alla scoperta del sesso che, ahimè, abbiamo già letto e riletto e riletto in tanti, troppi, giovani autori giovanissimi dentro. E sì, ok, la fica piace a tanti e dal Belli a Bukowski sono già in tanti ad averla sdoganata in poesia e letteratura, ma se vuoi includere personaggi femminili in un romanzo del XXI secolo temo occorra aggiungere qualcosa di più della loro celebre cavità. Ma non è il Bukowski di maniera quello che urta, benché c’è da dire che là fuori non esiste solo Bukowski per gli amanti dello stream of consciousness, e che anche un certo Joyce e un certo Salinger avrebbero detto qualcosina in proposito.

Tuttavia, le frequenti stonature di Littoria Blues City, quelle che davvero irritano, sono grammaticali. Qui sono stati stampati e ripetuti strafalcioni davvero impensabili. Su tutti, occorre insegnare all’autore (e al suo editor, va detto) la differenza fra l’aggettivo dimostrativo “quegli” e il pronome “quelli” (pagine 56 due volte, 93, 100, 166) o tra il plurale “begli” e “bei” (56). Più in generale, l’autore dovrebbe approfondire la regola che stabilisce quando si usa l’articolo determinativo “Lo”, plurale “gli” e l’articolo “Il” plurale “i”, così che se decide di chiamare un personaggio “Sbonzi”, e se vuole proprio mettere un articolo davanti al nome (cosa che non si fa, a rigore, se non come forma di dialettismo nordico, e Latina non è nel Nord Italia) sarà “Lo Sbonzi” e non “Il Sbonzi” (126) e quindi “dello Sbonzi” e non “del Sbonzi” (127).

Al di là di queste mancanze di base grammaticale, c’è poi una povertà di linguaggio nel momento in cui si ripete l’aggettivo “bello”, anche nella sua forma assoluta “bellissimo” per ogni cosa o persona. Ecco dunque che un uomo bello può essere senza dubbio “bello” (107), ma anche affascinante, magnetico, attraente, indimenticabile, stupendo, splendido, magnifico, incantevole, avvenente, seducente, appariscente, notevole, vistoso, piacente, aggraziato, grazioso, carino, piacevole, gradevole, delizioso, ameno, leggiadro, elegante, armonioso, equilibrato, ben fatto, ben proporzionato, armonico, scultoreo. E quando si è scritto per 3 volte che la pasta è “fresca” (sempre pagina 107), si dovrebbe cercare di non ripetere nel rigo sotto che anche la birra è “fresca”. Dimmi che è fredda, ghiacciata, polare, ustionante per quanto ghiacciata, appena tirata fuori dal freezer, dissetante, a zero kelvin, a zero centigradi, a 32 Fahrenheit, da brividi. Ma non fresca!

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