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Bombe Boston, sangue sulla maratona

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Preparo la borsa. Poche cose. Quanto basta per una giornata. Una giornata che sarà più lunga delle altre. Sicuramente più dolorosa.

Ho fatto spesso questo tragitto verso Boston. Sempre in autobus. Sempre al risparmio. Quattro ore che oggi sembrano il doppio. Perché si ha la sensazione di correre al capezzale di un amico ferito gravemente e non sapere come lo si troverà. Non vedo l’ora di arrivare e sapere che il dolore e il dramma di ieri non hanno cancellato la compostezza, l’austerità, la classe di una città elegante e colta, raffinata e accogliente. Qui, ieri, ventisettemila persone, arrivate da 96 paesi diversi, avevano corso in una delle maratone più famose al mondo e avevano corso anche per la pace, per onorare la memoria delle vittime di Newtown, quei bambini e quelle maestre barbaramente trucidati dalla mano di un folle nella scuola di Sandy Hook. 

Che dolore deve essere stato per i familiari delle vittime di Newtown, presenti in città, essere testimoni di un altro dramma, di altra violenza. Testimoni della morte di un altro bambino: otto anni, una corsa finita. In tutti i sensi.

Mentre scrivevo i pezzi per il giornale di oggi, il telefono ha cominciato a squillare. Mio zio, papà, Chiara. Ho capito allora che in Italia si raccontava di un pericolo più esteso, che arrivava a New York. In città, invece, si attivavano immediatamente, come da routine, le misure “tipiche” dell’antiterrorismo dettate da un momento di crisi. Niente di più. Niente di più di ciò che ci ha lasciato l’11 settembre. L’allerta e la reazione all’allerta. Il sangue e le lacrime, però, oggi erano a Boston. In quella città cosi’ “europea” che tanto amano gli italiani.

Mi preparo e chiudo stancamente Facebook. Non sono dell’umore adatto a leggere le solite frasi, insopportabilmente retoriche (e inutili) di questi momenti. Le riassume benissimo la mia amica Francesca: le frasi di chi urla al complotto, con gli americani che si auto bombardano, quelle di chi “si pero’ la Siria, l’Iraq ecc ecc ecc” e quelle di chi “ah ma se lo meritano, cosi imparano”. Certo, un bambino di 8 anni meritava di morire. Forse non era nemmeno americano. No, davvero, non sono dell’umore di leggerle queste girandole di banalità.

“In giornate come queste non esistono democratici o repubblicani. Noi siamo americani, preoccupati per il destino dei nostri fratelli”. E’ tutta lì, la forza di questo paese. Tutta lì. 

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