Di fronte ai fatti e alle prove, c’è solo da prenderne atto.
Un fatto e una prova s’impongono ai nostri occhi da sabato 13 aprile alla Fondazione Stelline di Milano, e ce li fornisce il fotografo Stefano De Luigi col progetto iDyssey.
La prova di cosa è presto detto: smartphone alla mano, un grande fotografo resta grande.

Tunisi, Tunisia (aprile 2012) - © Stefano De Luigi

Detto così, sembra ovvio, ma non lo è poi tanto: ragioni tecniche, culturali e sociologiche hanno tenuto lontana l’accettazione di una verità che anch’io, purista tra i puristi, ho faticato ad ammettere. Ma cieco no, questo non lo sono, e le prove sono prove.
De Luigi non è il primo fotografo affermato a utilizzare uno smartphone per progetti impegnativi; già altri hanno dato spazio alla loro curiosità, mettendosi alla prova con spirito aperto, lungimirante, scevro da autocensure espressive. E hanno spesso dimostrato di aver fatto cosa buona e giusta: se non si sperimenta non si avanza, delegando sempre gli altri a rischiare ma anche a innovare.
Per esempio Benjamin Lowy, fotogiornalista statunitense, ha coperto avvenimenti di portata internazionale optando per un iPhone. Risultati di livello altissimo, per il semplice fatto che di tale livello è l’autore, in grado di regalarsi questa libertà.

De Luigi va ora ancora oltre: non solo mette tutta la sua capacità di visione e la sua sapienza professionale nello “spremere” quello che molti considerano solo strumento fotografico legato all’adolescenziale condivisione di festicciole tra amici, ma lo piega fino a farlo divenire parte integrante del racconto, utilizzandone le note e i sapori peculiari. Paradossalmente, con un’attrezzatura convenzionale non avrebbe ottenuto un impasto narrativo ed evocativo di questa natura. In tal caso, più che mai, less is more.
Un’avventura della conoscenza, la sua, come avventura della conoscenza è quella di Ulisse, i cui percorsi De Luigi insegue nelle rotte visionarie attraverso il Mediterraneo.
iDyssey è un progetto ampio e ambizioso, che scommette sulla potenza intrinseca di un oggetto non specificamente fotografico (anche se ormai l’occhio di vetro di alcuni smartphone ha prestazioni di tutto rispetto…).
Di più: la serie fotografica di Stefano De Luigi viene integrata con alcuni video ripresi negli stessi luoghi e con lo stesso mezzo, altro passo verso quella visione convergente e contemporanea che è anacronistico e miope bollare tout court come “superficiale”.
Nel celebre assioma di McLuhan secondo cui “il medium è il messaggio” si prospetta una sorta di automatismo ineluttabile, che però la consapevolezza nell’uso del medium stesso può ribaltare in un “il medium consente il messaggio”.

Canakkale, Turchia (marzo 2012) - © Stefano De Luigi

Va detto che, in molti fotografi, il mezzo si porta dietro anche una valenza feticistica e tecnicistica, a cui ci si affeziona come al proprio giocattolo preferito: il trenino elettrico da bambini, la macchina fotografica da grandi. Talvolta, una fotocamera, viene più pulita e accarezzata che utilizzata. Per poi desiderarne un’altra, con un tastino in più.
Io stesso, da anni, mi trascino dietro alcune tonnellate di attrezzatura perché “non si sa mai”, perché io sono “un fotografo”, perché “sono abituato così”, perché è una questione di “serietà professionale”. Ma che dolore alla spalla, che sudate, che fatica, che voglia di una birra fresca!
E allora avere uno smartphone che fa fotografie vuole dire anche questo: riscoprire la leggerezza, il piacere del flaneur, la possibilità di non dare nell’occhio e di apparire inoffensivi.
Soprattutto significa una scorciatoia verso l’empatia con gli altri: non ruoli prestabiliti (tu il soggetto, io il fotografo, tendenzialmente aggressivo già per l’aspetto di grintose reflex e obiettivi come cannoni), ma l’appartenenza alla stessa comunità di umani, nella quale tutti hanno lo stesso oggetto (il telefonino), visto e vissuto come “ovvio e naturale”, dunque rassicurante.
Sul piano strettamente operativo, il fotografo è sollevato – suo malgrado – dalla sorveglianza stretta verso la tecnica e può riversare ogni energia creativa ed emotiva nel vivere pienamente e istintivamente il magico incrocio tra situazione e composizione.

Sicilia, Italia (aprile 2012) - © Stefano De Luigi

Quel che separa l’utilizzo fotograficamente consapevole di uno smartphone da quello bulimicamente autoreferenziale che i più ne fanno senza altri orizzonti, è tutto intero l’ingombrante problema di una latitante educazione visiva.
Ulisse, nella sua urgenza di risposte e nuovi lidi, ha accettato di abbandonare certezze per conoscere l’ignoto fuori e dentro di sé, e il fotografo a cavallo di mondi nuovi dovrebbe accettare le stesse sfide.
A voler vedere questi passaggi come un’opportunità, a cercare la bottiglia mezza piena, una constatazione: a fronte del flusso magmatico e caotico di foto, generate a miliardi da un ossessivo impulso diaristico destinato a sfociare in qualche social network per gridare “Io esisto!”, l’attenzione verso le manifestazioni legate alla cultura fotografica è forte, anzi più forte che mai. Mostre, convegni, festival, corsi e workshop  sono molto seguiti, particolarmente da un pubblico giovane: e se in qualcuno tale interesse fosse inizialmente germogliato da un telefonino che fa anche fotografie?

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