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Il numero chiuso all’università viola il diritto allo studio?

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Una recente sentenza della Corte Europea ha legittimato le procedure selettive di ammissione delle Facoltà di Medicina e Chirurgia italiane, dando torto ai ricorrenti, studenti che non erano stati ammessi ai corsi di Medicina o di Odontoiatria (uno dei ricorrenti era stato in effetti ammesso e poi radiato per non aver sostenuto esami per otto anni, come previsto dalla normativa vigente). Tutte le sentenze sono aperte alla discussione, ma questa era perfettamente logica e prevedibile.

 La Costituzione della Repubblica Italiana contiene un articolo (il n. 34) che sancisce il “diritto allo studio” ed è costantemente ricordato da chi ricorre contro il numero chiuso:

“La scuola è aperta a tutti.

L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.

I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”

Chiaramente la Costituzione si preoccupa di garantire il diritto allo studio a chi fosse privo di mezzi e prevede che l’eventuale sostegno economico sia attribuito per concorso, e quindi per merito. Poiché la Costituzione esplicitamente cita “i capaci e meritevoli”, evidentemente presume, o almeno permette, che esistano delle prove di esame o concorso finalizzate ad identificarli; dunque non c’è una ovvia anticostituzionalità nel concorso di ammissione.

Inoltre, esami di ammissione ci sono in tutta Europa o quasi: la corte di Strasburgo era probabilmente composta di giudici che per laurearsi avevano superato un esame di ammissione; era ingenuo pensare che la Corte Europea fosse più tenera dei nostri TAR.

Poiché l’Università italiana è pagata per circa l’80% dallo Stato con le tasse di tutti i cittadini (anche quelli che non possono permettersi il lusso di mandare i figli all’università), e solo per il 20% dalle tasse di iscrizione pagate dagli studenti, ogni iscritto è in larga parte a carico della società e non è irragionevole chiedergli di meritare l’iscrizione. Chi chiede diritto allo studio sta in ultima analisi chiedendo un supporto economico alla comunità, anche quando non chiede una borsa di studio. Comunque si consideri la questione, un riferimento al merito è imprescindibile.

C’è però da considerare una problematica più fine: “i capaci e meritevoli” della Costituzione possono essere in linea di principio in numero illimitato. Se un Corso di Laurea avesse cento posti e concorressero centouno capaci e meritevoli (ancora ammesso che il concorso di ammissione sia uno strumento capace di misurare il merito con infallibile precisione), un capace e meritevole sarebbe escluso a torto. L’uso di criteri comparativi, laddove la Costituzione ne indica di assoluti, è criticabile: infatti l’esame di ammissione non seleziona “i capaci e meritevoli”, ma “i più capaci e i più meritevoli”. In un paese in cui l’Università è sottodimensionata e sottofinanziata questo problema non può essere trascurato, anche se non ha nessuna soluzione ovvia.

Naturalmente è possibile sostenere che l’interesse dello Stato non è quello di limitare l’accesso alla cultura ma quello di estenderlo: che sia necessaria una revisione della Costituzione, che dica che l’Università deve essere aperta a tutti, non solo ai capaci e ai meritevoli, e che l’unica forma di valutazione del merito deve venire dagli esami di profitto. Ma non si può ottenere questo risultato per ricorso, lo si deve ottenere con una riforma della Costituzione. E comunque costerebbe piuttosto caro ai contribuenti.

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