Lucio Battisti, ieri, avrebbe compiuto 70 anni. Si è fermato molto prima, a 55, il 9 settembre 1998. Riservato anche nella morte, niente bollettini medici, funerali privatissimi.

Quando morì, fu lutto nazionale. Oggi il ricordo è più affievolito. Neanche un anno prima di andarsene, su RaiUno, Carlo Conti inventava malamente gli “abbattistamenti” in prima serata. Fans veri e soprattutto presunti giuravano di averlo visto davvero, al ristorante o al bar: “Lucio è canuto”, “Lucio è ingrassato”, “Lucio non mi ha neanche dato l’autografo”. Divo suo malgrado, soleva bestemmiare sul proprio santino. Detestava la fama, anzitutto la propria. In tivù smise di andarci appena poté.

Non amava neanche i concerti, che abbandonò a inizio Settanta, perché “non sono una merce in esposizione” e perché – musicista sopraffino – detestava che il suono fosse sporcato dall’affetto prosaico delle masse. Nato a Poggio Bustone, 5 marzo 1943. Mai avuto nulla di canonico. Strano caso di artista popolare pur non avendo quasi nulla di semplice. Sfuggente, per niente intellettuale, trivialmente caciarone con gli amici (le sue barzellette sporche si narrano ancora). Voce atipica, spesso fraintesa per punto debole: al contrario, quell’apparente stonatura eterna rese l’imprecisione una cifra distintiva. Ha rivoluzionato ogni cosa che ha toccato, a partire dal contenitore-canzonetta.

Nei Settanta esistevano due tipi di ribelli: quelli che lo ostentavano e quelli che odiavano chi lo ostentava. I primi si chiamavano cantautori, spesso erano bravi (Gaber, De André, Guccini) e a volte sopravvalutati (Vecchioni). I secondi erano i facili-apparenti. Quelli che la critica trombona non li sopportava, perché disimpegnati e probabilmente di destra (forse anche fiancheggiatori economici del terrorismo nero: Battisti venne accusato anche di questo). Quelli che, negli anni affollati della protesta, si trinceravano (apparentemente) nella casa in collina. Battisti è stato uno strano Truffaut della canzone: prendeva le strofe più banali e le stravolgeva. In un modo tutto suo. A un primo ascolto le rispettava: sembrava quasi incentivarne la medietà artistica.

Poi però scorgevi lo sberleffo del musicista pionieristico che cavalcava la normalità aulica di Mogol per inventare orizzonti nuovi. Quando una strofa non gli piaceva, lui ci “camminava” sopra, ora pronunciandola più velocemente e ora abbellendola con un azzardo negli arrangiamenti. Se Mogol scriveva cose (da arresto) tipo “Preferisco allevar vitelli e conigli”, in piena sbornia da ecologismo equestre con tanto di attraversata d’Italia al trotto (il paroliere rideva sempre nelle foto, il cantante proprio no), la reazione di Battisti era il gioco. La rivoluzione. L’estraniamento. Il coretto cazzeggiante ne Le allettanti promesse; La suite casereccia di Dio mio no, con trama da Attrazione fatale e i musicisti che esplodono in assoli multipli; o ancora le pulsioni etniche di Anima latina. Battisti si è nascosto tutta la vita. Forse perché ha incontrato una moglie che lo ha protetto troppo, da vivo come adesso, e forse perché sapeva già di mettersi sin troppo a nudo nei dischi. I capelli arruffati, il look da campagnolo arricchito (su cui Edmondo Berselli, battistiano di ferro, ha scritto pagine impagabili). Aveva mille registri: quando andò a Sanremo nel ’69, e fu l’unica volta, pianificò il successo con lucidità da iconoclasta che si travestiva da nazionalpopolare (“Non sarà un’avventura”: appunto). Dieci anni dopo, batterie contrabbassi eccetera: la piena maturità musicale, accompagnata da quei gran geni degli amici (tra cui Ivan Graziani). Almeno dieci ballate eterne (ed è certo anche merito di Mogol), almeno dieci ritornelli che tutti riconoscono (alzi la mano chi non ha mai canticchiato La canzone del sole) e svariati oggetti mitici come quella “motocicletta 10Hp mitica, tutta cromata è tua se dici sìììììì”.

Colonna sonora generazionale, genio con più spigoli che sorrisi. Più scappava dal proprio mito, più lo edificava. Negli Ottanta, malato e con destino a scomparsa, provò a violentarsi con uno degli album più brutti di sempre, E già. Poi incontrò Pasquale Panella, scoperto (chissà come) in un disco di Adriano Pappalardo, e firmò la pentalogia più aliena della musica italiana. Lo ricordavano commerciale, accessibile, edulcorato: lo ricordavano male. Don Giovanni fu uno schiaffo divino – “Dopo di noi, il diluvio” – all’immobilismo canoro e dunque mentale. Sentenziarono: “Lucio è cambiato”. No: la mutazione era la sua stella polare. Erano gli altri ad essersi fermati. A non volerlo capire. “In nessun luogo andai/ per niente ti pensai/ e nulla ti mandai/ per mio ricordo/ Sul bordo m’affacciai/ d’abissi belli assai”. In apparenza strofe criptiche, di fatto schegge irregolari di autobiografia. Battisti non ha reiterato che questo: affacciarsi sul bordo di crepacci che per altri erano abissi. E per lui, semplicemente, rampe di lancio appena inconsuete.

Il Fatto Quotidiano, 6 Marzo 2013

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