Ho sempre trovato oscuro il motivo per cui la Democrazia Cristiana, passata alla storia come il partito che nel bene e nel male (più spesso nel male) ha fatto l’Italia, governando il paese ininterrottamente per quasi cinquant’anni e condizionando le vite di generazioni di italiani, non abbia generato una sua letteratura, non dico di partito, ma quantomeno di testimonianza. Non credo che basti come spiegazione l’egemonia culturale della sinistra e segnatamente del Pci, così come non basta l’idea che il controllo, nel caso della Dc, fosse esercitato non tanto attraverso i prodotti culturali ma tramite una struttura ideologica-istituzionale come la Chiesa.

È per questa ragione che un romanzo come Il cielo è dei potenti – scritto da Alessandra Fiori e pubblicato da quella che, secondo me, attualmente è una delle migliori case editrici in circolazione, la romana edizioni e/o – va registrato come un fatto letterario di assoluto rilievo. Perché a suo modo colma un vuoto abnorme, e lo fa mettendo in scena mezzo secolo di storia italiana, quella che una fortunata espressione giornalistica ha fatto passare sotto il nome di Prima Repubblica.

Un titolo che riecheggia Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor (lì era la violenza che si fa strumento di grazia, qui è il potere) la storia racconta l’ascesa del democristiano Claudio Bucci, dalla provincia romana degli anni Quaranta ai palazzi che contano. Palazzi che Bucci scala uno alla volta, fino al più importante di tutti, Palazzo Chigi, in cui riesce a mettere piede per meno di ventiquattr’ore prima di essere travolto dall’onda lunga di tangentopoli, con un ritardo che sembra l’ultima benevolenza concessagli dagli dei. È una lunga confessione scritta in prima persona, schietta, senza veli, che non risparmia niente e che descrive le canaglierie che hanno costituito la base di un sistema di potere: i traffici, le mascalzonate, gli imbussolamenti e il voto di scambio, le fughe dalle cene elettorali per non pagare il conto, le sagre di partito, il gioco dei compari, i trombati. Un potere che è sempre fine a se stesso, che non viene mai declinato al tempo presente perché c’è sempre un incarico più in alto a cui aspirare, che non tiene mai in considerazione il bene comune ma sempre e solo il vantaggio personale.

Ed è proprio quest’ultimo l’aspetto più angosciante che affiora dalle pagine del romanzo, ossia l’idea di una politica che nella percezioni di quei potenti a cui fa riferimento il titolo non è mai al servizio dei cittadini. Non lo è come premessa, non lo è perché solo a pensarlo si passerebbe per degli sprovveduti – quando va bene – se non apertamente per dei poveri coglioni.

Accanto a tutto questo c’è la vicenda familiare, che è sempre un po’ di lato rispetto alle questioni politiche. Un matrimonio e degli affetti che vengono sacrificati in nome dell’avanzamento pubblico, i sentimenti che sembrano valere come il gioco delle bambole, l’impressione complessiva di una vita che arde in nome di un’unica ossessione. Il risultato è una ricostruzione imponente di un pezzo considerevole di Novecento italiano, scritto senza fronzoli, ma con il gusto diretto della confessione, un romanzo sociale alla rovescia in cui la classe che viene presa in esame è per certi aspetti (umani, morali) la più debole di tutte: quella dei potenti.

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