No, Zero Dark Thirty non è solo un film. Lo dice Michael Hayden, ex direttore della CIA dal 2006 al 2009: “Ogni riga di sceneggiatura ha una parte di verità. Gli interrogatori erano molto duri, ma grazie a questi l’agenzia ha ricavato informazioni rilevanti. E Maya (la tosta protagonista interpretata da Jessica Chastain, candidata all’Oscar, NdR) è stata una vera eroina”. Che cos’è Zero Dark Thirty (da giovedì 7 febbraio nelle nostre sale, cinque nomination agli Academy Awards): docu-fiction, film di finzione basato su eventi reali o resoconto più vero del vero?

“Grossolanamente inaccurato e fuorviante” nel trattare la liaison pericolosa tra i metodi d’interrogatorio della CIA e la scoperta del rifugio di Osama Bin Laden: accusa diffusa, e amplificata dai senatori Dianne Feinstein, John McCain (sì, lui) e Carl Levin, che hanno deciso di avviare un’indagine ufficiale per far luce sulla cooperazione tra gli spioni di Langley e gli sceneggiatori Kathryn Bigelow e Mark Boal. Alla berlina i rapporti tra B&B e Michael Morell, l’Acting Director della CIA, che ha risposto in due tempi: prima, “il film non è realistico”; poi, “se furono in effetti decisive le tracce raccolte durante gli interrogatori, come suggerisce il film, è questione dibattuta che non può essere e non sarà mai appurata”. Non è pari e patta, anzi: “La cosa realmente preoccupante – stigmatizza Hayden – è che alcuni legislatori e gli attuali vertici della CIA si siano sentiti in obbligo di intervenire in maniera così esplicita su un film”. 

Che cos’è, dunque, Zero Dark Thirty? Facciamo finta sia solo un film, che per ragioni drammaturgiche e di mera immedesimazione restringe la caccia a Bin Laden a un piccolo gruppo di segugi, pragmaticamente e moralmente guidati da Maya: Bush nel fuoricampo, di Obama solo una comparsata elettorale, la politica latita, ma per scongiurare la maledizione dei film sul 9/11 si è puntato sulla cornice thriller e una sensazione data per assunto: “E’la caccia di una nazione”.

La morte del leader di Al Qaeda per mano dei Navy SEALs ad Abbottabad il 2 maggio 2011 è quasi un incidente di percorso per B&B: la Storia ha messo lì il climax, viceversa, Zero Dark Thirty mette a fuoco il prima – le tappe esplosive della guerra al terrore lunga un decennio – e ancor più il dopo. Singolarmente, la domanda è la stessa sortita dalla regista libanese Nadine Labaki inquadrando lo “scontro di civiltà” di un Medio Oriente non meglio precisato: E ora dove andiamo? 

Mission accomplished, ora Maya è l’unica passeggera di un cargo militare, ma non sa che dire al pilota: per lei parlano le lacrime, un pianto a dirotto senza altra destinazione che l’America. Terminato il Most Wanted, ora gli States dove vanno? Piuttosto che rimestare sul waterboarding e le altre amenità degli interrogatori, bisognerebbe interrogarsi sulla meta di Maya e di un Paese tutto: l’Uomo Nero non c’è più, ma il futuro che colore ha? L’anticlimax è devastante e l’identità Usa, costruita per differenza su Bin Laden, tremebonda: “Lo sceicco del terrore è morto, lunga vita allo sceicco”. Non lo sentiamo, ma sa Dio quanto Maya vorrebbe.

 

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