Non era Chávez. La fotografia d’un uomo intubato, apparsa ieri, per una mezzoretta, sulla pagina web di El País di Madrid (e finita anche sull’edizione cartacea, poi frettolosamente richiamata) non apparteneva al presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Anzi: non era, a quanto pare, che un fotogramma tratto da un vecchio video (che nulla aveva a che fare con Venezuela) pubblicato un paio d’anni fa nel caotico regno di YouTube. Scandalo, indignazione, frizzi e lazzi, grida di dolore. Con l’inevitabile aggiunta – essendo la madre dei ‘complottisti’ notoriamente sempre gravida quando il tema è l’America latina – di qualche ridicola accusa di ‘golpismorivolta al ‘venerable diario de España’ come ieri, con un’ovvia punta d’ironia, l’ha definito il ministro dell’informazione venezuelano, Ernesto Villegas.

Che la sia pur molto fuggevole pubblicazione di quella foto – dal medesimo Villegas molto tempestivamente definita ‘falsa y grotesca’ – sia destinata ad arricchire la lunga storia delle grandi (o come in questo caso non troppo grandi) gaffe giornalistiche, non v’è dubbio alcuno. Così come non v’è dubbio alcuno che, volendo restare nel campo delle teorie cospirative, tutti i giochi sono validi. Si può tranquillamente ipotizzare che lo scivolone di ‘El País’ non sia affatto tale, configurandosi piuttosto come un deliberato (anche se, nel caso, troppo frettoloso)  momento della ‘guerra psicologica’ che la reazione internazionale va conducendo contro la rivoluzione bolivariana. Oppure giungere alla conclusione che, al contrario, il ‘venerable diario’ sia molto maldestramente caduto in una trappola all’uopo tesagli da quanti – in un’ennesima riedizione del famoso ‘nemico esterno’ d’orwelliana memoria – vogliono dimostrare, per l’appunto, l’effettiva esistenza della summenzionata ‘guerra psicologica’.

Tutto, quando di complotti si parla, è possibile. Tutto ed il contrario di tutto. Il punto vero – al di là delle brutte figure e delle tenebrose trame che dietro le medesime si celano – resta tuttavia  quello di sempre. A ormai oltre sei settimane dalla partenza di Chávez per Cuba, del vero stato di salute del grande leader della rivoluzione bolivariana, non si sa nulla. O meglio: non si sa che il nulla che, in questi quaranta e passa giorni, è stato ripetuto in una trentina di bollettini medici, dai quali non si poteva dedurre che questo: che Chávez era stato operato, che l’operazione era stata “complicata” e che il presidente venezuelano ne era uscito “con seri problemi respiratori”. Questo e quel che parallelamente si andava apprendendo, in una sorta di surreale balletto verbale, dalle dichiarazioni dei sei uomini politici (il fratello Adán, il vicepresidente Nicolás Maduro, il presidente della Asamblea Nacional, Diosdado Cabello, il summenzionato ministro dell’informazione Villegas e, più recentemente, il neo-ministro degli esteri Elías Jaua) che, in queste lunghe settimane, hanno fatto la spola tra l’Avana e Caracas, per ricevere – così sono andati dichiarando – ordini, suggerimenti, indicazioni da quello che (parole di Nicolás Maduro) ‘resta a tutti gli effetti il presidente in carica’.

Il quadro è – per reiterare lo stesso aggettivo da Villegas usato riferendosi alla foto dell’intubato – davvero grottesco. Nessuno può dire – in base alle informazioni ricevute – se Chávez sia vivo o morto. Non esiste un’immagine, un suono, uno scritto che provi al di là d’ogni ragionevole dubbio la sua permanenza in questa valle di lacrime. Però si sa, per voce dei suoi summenzionati seguaci-surrogati, che il presidente ‘è perfettamente cosciente delle sue condizioni e delle vicende venezuelane”, che “dimostra un’ incredibile energia” e che, entrato ora in una nuova fase post-operatoria, attraverso “una luce nei suoi occhi  rivela tutta la sua felicità per l’amore che il suo popolo, riunito in preghiera nelle chiese e nelle piazze, va in queste ore testimoniandogli. Si sa che Chávez non ha potuto presentarsi alla cerimonia del giuramento dalla Costituzione previsto per il 10 gennaio. E si sa che il Tribunale Supremo di Giustizia con una sentenza che sembra uscita dalle pagine del miglior ‘real maravilloso’, o realismo magico – ha dichiarato questa incombenza una prescindibilissima ‘formalità’. Si sa che lo stesso Chávez che non ha potuto presentarsi al giuramento ha ‘personalmente’ incaricato il suo vice, Nicolás Maduro di presentare, come impone la Corstituzione, la ‘Rendición de Cuenta” di fronte all’Asamblea Nacional. E si sa che, pochi giorni dopo, ha, sempre ‘personalmente’, nominato il nuovo ministro degli esteri, Elías Jaua. Ma nessun deputato ha fin qui potuto leggere quella ‘Rendición de Cuenta’, frettolosamente deposta da Nicolás Maduro nelle mani di Diosdado Cabello. E la firma apposta al decreto che nominava Jaua è risultata, alle più elementari analisi grafologiche, palesemente contraffatta. Il che non ha impedito che lo stesso Jaua, giunto tre giorni fa all’Avana nelle vesti di nuovo ministro, s’incontrasse con il medesimo Chávez. E, incontratolo, dichiarasse d’avere avuto modo di scambiare con lui ‘battute di spirito’, a riprova del fatto che il ‘presidente- comandante’ era, oltre che come sempre ‘indomito’, anche molto di buon umore.

Chávez parla, Chávez ride, Chavez governa e, ovviamente, comanda. Però non è, a quanto pare, capace di dire (o di scrivere) direttamente al popolo che sta pregando per la sua salute, neppure due essenziali, semplicissime parole: ‘sono vivo’

Il che ci riporta a bomba. Tutti d’accordo: il Chávez della foto sfuggevolmente apparsa su El País è un falso. Ma il Chávez vero, dov’è?  

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