Altra proposta editoriale, e siamo a 10.
Nel frattempo, un autore che si era proposto mi ha scritto, pregando di cancellarlo: la proposta editoriale che aveva inviato a me, affinché la postassi su Il Fatto, ha trovato un editore. Bene. E in bocca al lupo.
Sul tema infinito di proporre i propri manoscritti agli editori, tempo fa sul mio blog avevo scritto questa cosa qua.
E buona lettura
Reb

La Minchia dell’Angelo

(ovvero: anamnesi dell’angelo arrosto)

di Esteban Espiga

– Primo Capitolo –

Quel cretino dalle mani enormi, appese come pendoli a braccia lunghissime e sbilenche, quella specie di Giannimorandi?
Non ci crede nessuno, perché ancora da queste parti la faccia da imbecille è un lasciapassare per il paradiso, l’illusione tangibile che gli scemi sono figli di Dio.
Il soma schizofrenico di Angelo, conigliesco e asinino, va bene per immaginarlo intento in masturbazioni furiose tra torri di gomme d’auto e taniche d’olio, la fronte a tremargli sul calendario Pirelli, dove le grinze di concentrazione gli trasformano la testa in un enorme scroto pensante, da sfregare tra le tette della Marini, e le unghie nere ficcate nella carne bruna del sesso a disegnarci sopra ghirigori come di kajal.
La più cattiva che ha fatto è stata infilzare Furio con un ombrello chiuso, proprio farci una galleria nel petto e aprirglielo dietro la schiena; ma il molosso gli si era gettato contro a fauci spalancate, strinato di calce e fango, comparso all’improvviso da dietro il silos abbandonato. E Angelo, che a puttane ci va una volta a settimana, quella sera di pioggia di tornarsene a casa correndo non ci pensava nemmeno.
Ha mulinato le zampe per un minuto scarso, prima di restarsene disteso su un fianco, il manico ancorato allo sterno, come un bestiale elicottero precipitato.

Angelo non ha bisogno di alcunché. A lui bastano la sua Ape, quel che ha nelle mutande e qualcuna con cui usarlo. A volte tutte e tre le cose contemporaneamente, infrattato dietro i muretti del mattatoio comunale, distesi per lungo sull’unico sedile dell’Ape, il giubbotto coi soldi già pronti in tasca come cuscino, e un finestrino aperto per uscirne i piedi. Un paio di volte era riuscito a durare quasi infinitamente, agghiacciato dal nitrito pazzo di una bestia chiusa nella stalla attigua; un grido come di frenata improvvisa e subitanea ripresa in prima, sulle ruote a sfrigolare come girandole sull’asfalto. Uno sghignazzo triste che gli aveva ficcato un amo di gelo nel sedere e gli era risalito arroccandosi e disincagliandosi per tutte le vertebre, fino a spegnersi dietro la nuca, lasciandogli un vuoto silenziosissimo tra le orecchie. Il suo assalto di pelvi aveva perso il fuoco, e allora ci aveva dato dentro stridendo i denti per ritrovare il ritmo e la corsa alla colata di piacere sfiancante che a quel punto, di norma, avrebbe già dovuto esplodergli dal sesso. Cercò quell’attimo come riscaldando di fiato un cucciolo tramortito, sciogliendone via la morte dal pelo sino a riattivarne la vita riassunta in un ruttino, che lui esalò, in un certo senso e da una certa parte, proprio quando la donna sotto di lui, senza curarsi di nasconderlo, aveva torto il proprio polso ad illuminare lo swatch di luna, che anche una puttana ha il suo minimo e massimo sindacale di durata.

Quando quindi vuole che il gioco si introttoli e si diluisca nei minuti supplementari, dirige l’Ape, con la passeggera sospettosa che si chiede nervosa se lui è uno di quelli che pagano, nello spiazzo erboso dietro il macello, le orecchie ben tese all’ascolto.

Anche Angelo, come tutti, ha un’aspirazione, un punto d’arrivo sublime, se possibile visibile e riconoscibile. Lui vuole che appaia un segno, e lo vuole su di sé, sul proprio corpo, come quella bocca di sangue sul costato del Signore, lì, una lumaca vermiglia immobile sul fianco destro della statuetta, un cristo in croce tutto di cera, accanto all’orologio americano del padrone, una riproduzione della statua della libertà in pesantissimo piombo, nella base un quadrante dal vetro bombato, svaporizzato di brina all’interno, quasi le lancette -nello sforzo di riprendere un movimento inesistente da decenni- avessero stillato sudore. Le stimmate che Angelo desidera con tutto se stesso, a costo di sofferenze, tempo e fatica, sono quel percorso come di trippa sottocutanea, l’ingrovigliarsi di varici e muscoletti sulle tibie, nodi serpentini e quasi vivi. “Vedi” gli ha detto un giorno il padrone, scalzandosi la tuta fino alle ginocchia, “quando ero ragazzino io il copertone si staccava dal mozzo saltandoci sopra a forza di calcagni. E l’ ho fatto per così tante volte che adesso le gambe sembrano tane di millepiedi”. Ecco cosa vuole, più di uno sfregio in faccia lottando per l’onore della propria donna, più dei buchi di pallottole guadagnati da uno zio poi diventato prete. Belle spirali di corda contorta, grumi di grasso e siero indurito. E quando può, quando il padrone è fuori a fare commissioni, al diavolo il mandrino e la leva, è proprio saltandoci sopra serrando le labbra che lui sbuccia il copertone dal cerchione, godendosi le fitte serpentine di dolore come un’incisione al merito sulla viva carne. Perché un giorno certo lascerà qualcuno a bocca aperta, denudandosi le gambe magre e mostrando il frutto ingrommato della propria abnegazione.

Su Cronaca Vera una volta il padrone ha letto a voce alta un articolo su Marilyn Monroe. Tutto è filato via liscio dall’orecchio al cazzo , dove la memoria erotica di Angelo aveva scolpito le chiappe a cuscino e il petto a materasso dell’americana, fino a che una notizia non gli si arroccò nel cervello come un groviglio di ami e piombi: in un piede l’attrice aveva sei dita. Uno in più accanto al mignolo. Partita la carriera, partì via anche l’intruso, scartato da un chirurgo che forse, a giudizio del padrone, se lo conservò pure, quel cicciolo famoso. L’undicesimo dito di Marilyn. E’ questa, un’altra sua fissa. Non appena può, le conta tute le dita che fanno capolino dai sandali o da dentro collant un tanto l’ora. Una donna con undici dita, captasse, non se la lascerebbe scappare, a costo di staccarlo con un morso, quel coso in più.

Quarta di copertina

Angelo fa il gommista. Anzi, Angelo lavora come ragazzo a cottimo presso un’autofficina. E’ ignorante e cattivo, senza sapere di essere l’uno o l’altro. Ama possedere corpi, che gli passano davanti quando siede sul marciapiede, accanto alla saracinesca alzata, a suturare di toppe gommose le ruote. Le donne pensa Angelo, sono camere d’aria da rattoppare con uno sputo di caucciù e poi spingerle in fondo al garage con una pedata, perché le donne non hanno mai voluto bene ad Angelo. Ma voi vorreste bene, ad uno come Angelo.
Fino a quando in paese non arriva la meravigliosa Esposizione.
E quindi la Balena.
Che nel cervello di Angelo e per la prima volta –forse- nel suo cuore, prenderà il posto della pianista zoppa, della ragazza bruttissima, delle decine di prostitute che si fa dietro al Macello comunale.
Come fare a possederla, a farla sua, a trasformarla in sua proprietà amata?
Tutto ha un prezzo.
Figurarsi la Balena.

Autore

Esteban Espiga, scrittore.

Articolo Precedente

Ad Assisi i resti dell’Anfiteatro trasformati in una Spa

next
Articolo Successivo

Russia, romanzi e censura. Vasilij Grossman, la lezione del bene

next