Non v’è dubbio alcuno: quella che lo scrittore Abel Prieto Jiménez, fino a qualche mese fa Ministro della Cultura della Repubblica di Cuba, ha raccontato sabato scorso (clicca qui per la cronaca del Granma) è, in assoluto, la più bella barzelletta – la più esilarante ed anche, naturalmente, la più comicamente involontaria – mai diffusa in una terra (Cuba, per l’appunto) particolarmente fertile. O, più esattamente, in un paese nel quale la barzelletta è, per molte ragioni, diventata il primo sostento dell’arte di sopravvivere. Eccola: a Cuba – ha assicurato Prieto – non esiste “una sola barzelletta che alluda alla Rivoluzione, a delazioni, o a prigionieri di coscienza”.  Perché a Cuba – ha aggiunto imperturbabile – “le barzellette mirano alla scarsezza di beni, o all’emigrazione, in forma benevola, comprensiva, senza rancore né bile…”.

Molto interessante – ed a suo modo, anch’esso assai comico – è il contesto nel quale lo scrittore ha regalato al mondo quest’indiscutibile capolavoro d’inconsapevole umorismo. Teatro dell’evento (a suo modo storico) è stata infatti una “tertulia” – vale a dire: una riunione letteraria informale ma, nel caso specifico, ufficiale quanto basta per meritare l’appassionata attenzione del Granma – dedicata alla presentazione dell’ultima fatica del Prieto: “El humor de Misha, la crisis del socialismo real en el chiste politico”, libro che l’autore afferma d’aver scritto di getto, come in un raptus”, in appena un paio di mesi, rielaborando personali ed antiche memorie. L’opera raccoglie quelle che, secondo il Prieto, sono le migliori barzellette che, nella vecchia l’Unione Sovietica, fecero da contrappunto alla crisi e, quindi, alla caduta, del socialismo reale. Finalità dell’Opera? Non tanto – ha chiaramente spiegato l’autore – quella d’illustrare, attraverso il sarcasmo popolare, le ragioni della caduta di cui sopra, quanto quella di mettere in risalto la “differenza”. Quale differenza? Quella, ovviamente, che separa la ferocia dell’umorismo che accompagnò il corteo funebre del socialismo sovietico, dalla molto bonaria ironia (un’implicita forma di consenso, in effetti) che, a Cuba, per mezzo secolo ha chiosato le tribolazioni della vita quotidiana. Da un lato, quello sovietico, solo odio, rancore, le lacrime ed il sangue d’una “tenebrosa carica di risentimento”. Dall’altro, quello cubano, null’altro, invece, che una sorta d’amorosa arguzia, colma d’affetto per la Rivoluzione e per Fidel, il di Lei padre. Nessuna cattiveria, nessun accenno a cose – repressioni, prigionieri di coscienza, mancanza di libertà – che, a Cuba, è appena il caso di sottolinearlo, mai sono esistite…

La cronaca del Granma molto puntualmente descrive le sonore risate che hanno accompagnato le parole di Abel. Ed è certo che davvero vi fosse, nelle sue parole, molto da ridere. Come io stesso posso, in base alla mia personale esperienza, molto modestamente confermare, nonostante appartenga a quella sfortunata categoria di persone che non rammentano le barzellette. Quelle ascoltate a Cuba – qualche migliaio, credo, le ho scordate tutte.  Tutte, tranne tre, le prime che mi vennero incontro quando arrivai all’Avana come corrispondente dell’Unità, nel lontanissimo 1985. Eccole:

La prima: Vuoi sapere chi, nel tuo isolato è l’informatore della “Seguridad del Estado”? Facilissimo. È l’unico che in casa abbia la televisione a colori…

La seconda: a Cuba le tonsille te le estraggono per via rettale. Perché qui a tutti è vietato aprire la bocca. A meno, naturalmente, che uno non venga ricoverato nell’ospedale Villa Marista (Villa Marista è l’edificio nel quale la Seguridad interroga i cittadini “sospetti”).

La terza (la più volgarotta delle tre e, probabilmente proprio per questo, quella che più spesso mi è capitato riascoltare): ormai invecchiato e prossimo alla fine, Fidel da disposizioni per la sepoltura “a pezzi” del suo corpo. E chiede che il suo cuore venga interrato nel Cuartel Moncada, dove cominciò la sua avventura rivoluzionaria, che le sue gambe riposino nella Sierra Maestra, dove partì la sua grande marcia, che la sua lingua rimanga in Piazza della Rivoluzione, dove ha pronunciato i suoi più importanti discorsi, e via seppellendo…Quando ha terminato, i becchini, perplessi, gli dicono: qui c’è un problema, comandante. Che cosa facciamo con il suo culo? Perché Lei quest’isola l’ha, in questi anni, cagada de punta a punta”…

Davvero queste storielle – che nella Cuba degli anni ’80 conoscevano tutti – non sono mai giunte alle orecchie dell’ex ministro ora tornato al suo mestiere di scrittore? La curiosità di saperlo resta, anche se la domanda è, ovviamente, ormai del tutto superata. Perché la barzelletta che lui, Abel Prieto, ha raccontato sabato scorso – quella che nega l’esistenza di barzellette “dure” a Cuba – ha, per la sua straordinaria, surreale lepidezza, involontariamente oscurato tutte quelle, “durissime”, che negli ultimi cinquanta anni l’hanno preceduta. Abel Prieto – le cui non molte precedenti opere mai avevano, prima d’ora, lasciato intravvedere alcun soffio di ironia – ha, nel corso della tertulia, annunciato un nuovo romanzo umoristico-poliziesco. Ma il suo destino sembra a questo punto analogo– vedi il caso di Gabriel García Márquez con il suo “Cent’anni di solitudine” – a quello dei molti grandi scrittori che hanno esordito con un capolavoro. Difficilmente riuscirà a superare se stesso…

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