Per quanto nello scorso mio intervento avessi detto in apertura che sapevo bene di star toccando un argomento delicato – la musica al giorno d’oggi – non mi aspettavo così tanti commenti. Ringrazio quasi tutti per tanta partecipazione, vogliosa di essere a suo modo esaustiva e non frettolosa. Sono però in disaccordo con molto di ciò che ho letto, perché le argomentazioni paiono partire da una pregiudizio o da una lettura non attenta: io non ho scritto le mie cose con il tono “dovete comprare i cd”, né con la nostalgia di chi vorrebbe tornare indietro. E non ho nemmeno scritto pensando al destino dei Marlene Kuntz come fine ultimo delle mie affermazioni. Le frasi nascevano dal desiderio di trovare terreno fertile per la comprensione delle difficoltà reali della nostra amata musica e dei musicisti. Ma, a dirla tutta, ero forse un po’ ottimista: perché non ho riscontrato, per lei e per loro, un amore e una riconoscenza incondizionati.

Riscrivo quindi la frase del testo della canzone che ha giustificato il mio intervento precedente: “Le cose cambiano, e io non le contrasto mai; sarebbe stupido, altrettanto inutile. Ma mi fa schifo, sai?, l’insensibilità”. Il mio discorso è tutto qua: non prendete per il culo i musicisti. Rispettate il loro lavoro a priori. Se poi ciò che fanno non vi piace più, nessun problema: è nella logica delle cose. Ma non prendete per il culo i musicisti: non è più il tempo. Non ve n’è più il motivo. E’ un giochino unicamente ingiusto.

Premessa: è vero, i problemi più gravi sono altri, noi musicisti affermati continuiamo a essere una categoria privilegiata rispetto a chi ha perso il lavoro. Però: 1) io sono un musicista e non un sociologo, né un politico, né un opinion leader, né un economo, e il mio blog compare in terza pagina, quella della cultura. E di sorte della musica parlo, secondo il mio punto di vista, in un contesto culturale 2) nel terreno fertile della condivisione di cui sopra, gradirei si tenesse a mente che anche il musicista sta perdendo metà del suo lavoro (la vendita della sua musica), e l’altra metà rimasta in vita (il concerto) è fortemente, molto fortemente, danneggiata dalla morte della prima. Il perché è ben contenuto nel mio post precedente, per quanto assai poco compreso dai più.

Partirei dunque così: sulla vendita standard (dunque non a prezzo ridotto) di una copia di un disco, il provento per gli autori è poco meno di un euro. Lordo. Se il gruppo è formato da tre elementi che spartiscono democraticamente, fa poco meno di un euro diviso tre a cranio. Al giorno d’oggi, a seconda dei periodi, si può andare in classifica (intendo nei primi tre posti, non nei primi venti o cinquanta) anche con soli 2500 pezzi venduti (avete letto bene, non ho dimenticato nessuno zero). Potete fare la moltiplicazione e rendervi conto del guadagno in termini di royalties. A gruppo e a cranio. Se poi invece di 2500 capita che siano, per dire, 11.000 la cosa cambia poco (solo i bombardoni che stanno on air, letteralmente tanti mesi e sostenuti da tutte le radio e i network, volano più alto. Ma capite bene quali sono i bombardoni e qual è il tipo di musica a cui mi riferisco io in questo lungo discorso).

Credo sia triste che un musicista di successo (quale io parzialmente sono, volenti o nolenti) si debba ritrovare a scrivere certe cose: ma tant’è… Fra i commenti letti mi sembra ben chiaro come certe informazioni siano quasi necessarie. Qualcuno mi ha anche mandato a dire che ero poco onesto nel non riportare “come stanno veramente le cose”. E allora ecco qua: le cose stanno come avete letto. (Solo i cosiddetti big, dopo anni in cui hanno potuto dimostrare di saper mantenere il successo e, per l’appunto, diventare big, credo possano godere di qualche punto percentuale in più: conseguenza di una cosa del tutto normale nel mondo del lavoro, quale la contrattazione)

Conosco la contro-argomentazione: la solita tiritera contro le multinazionali del disco e le loro vessazioni. Le multinazionali hanno fatto molti sbagli. Alcuni probabilmente molto gravi e in malafede. Ma secondo me è pure giusto tenere a mente che con il senno di poi è sempre un po’ semplice giudicare. Penso sia plausibile immaginare che l’avvento della tecnologia sia stato massiccio e subitaneo: e allora si può comprendere la difficoltà di difendersi nel modo più lungimirante possibile in poco tempo. Il percorso dell’umanità è pieno di sbagli. Pensiamo allo sbaglio enorme che stiamo compiendo nei confronti del nostro pianeta terra: avete idea di quanta gente, con l’avvento delle prossime generazioni, si ritroverà (forse) costretta a odiare tutti noi, incondizionatamente o quasi, per la nostra incuria e mancanza di avvedutezza?

(E’ vero: negli anni d’oro le multinazionali ci hanno guadagnato molto più che il giusto. Ma sarebbero da ricordare allora, per equanimità, certi contratti in essere a tutt’oggi di cui godono i big, stipulati in precedenza alla crisi del disco e ora del tutto fuori mercato. Magari fra essi ci sono anche i beniamini immacolati di qualcuno fra voi… In ogni caso: sono discorsi che a me interessano molto poco. Guardo alla mia vita, non a quella degli altri. E non tifo per le nemesi storiche di poca importanza)

E allora la contro-argomentazione a questa contro-argomentazione diventa quella di cui ormai si stanno impadronendo anche coloro che non conoscono la realtà della musica indipendente: l’auto-produzione. Bene: io ho sempre dichiarato nelle nostre interviste che non mi sento un imprenditore. Chi decide di auto-prodursi o è uno sprovveduto destinato a perdere un po’ di soldini (come capita a chi non ha il talento dell’imprenditoria, in qualsiasi campo. Ma magari, a pensarci bene, con la musica non ci vive, e magari qualche soldino glielo gira pure papi) o è un musicista-imprenditore. Allora si sappia che a livello di “immagine” ho una totale predilezioni per l’artista ingenuo e incantato, il musicista-musicista, che pensa con la sua testa per aria a come fare una canzone nel modo più interessante possibile senza far calcoli di un certo tipo su come confezionarla, rispetto a chi giocoforza creerà le sue cose con, anche, l’assillo di non far fare una brutta fine ai soldi che ha messo di tasca propria. Io rispetto totalmente chi ha il coraggio di buttarsi nell’auto-produzione, ma ne chiedo altrettanto per chi ha il coraggio di ammettere di non averne le qualità. (Per inciso: con la auto-produzione le cifre di guadagno a copia credo rimangano sostanzialmente simili, more or less)

Rientrando dunque nell’alveo delle cose fatte con una discografica: non sempre si riesce a imporre un prezzo, come qualcuno crede. Ma sarebbe carino aver la pazienza di soffermarsi comunque sul dato numerico che ho fornito prima per poter rendersi conto che in ogni caso la situazione è un po’ patetica.

Chi dice che non ama farsi fottere senza aver ascoltato prima ciò che comprerà, e che ora con la rete può farlo, o ha la memoria corta o non sa che quando esistevano i negozi di dischi un rito piacevolissimo era prepararsi una fantastica giornata di ascolti e scremature dal negoziante di fiducia (amante, lui sì, della musica, e in genere ben felice di far ascoltare condividendo), dopo aver passato giorni a leggere recensioni sui giornali del cuore… Ecco: tutto ciò è morto. Ne prendo atto, ma credetemi: era più bello, e i musicisti avevano più tempo e motivazioni per fare dischi interessanti, non mega compressi e tutti uguali come ora.

Al riguardo: il nostro ultimo disco di inediti (“Ricoveri virtuali…”) è stato masterizzato come si faceva una volta, senza la super compressione di ora. Suona più basso degli altri, e al loro confronto sembra/è più debole di impatto: ma è più ricco armonicamente. Ed è più vero. Ma sappiamo bene che questa è una scelta rischiosa.

Ci sono altri che dicono: “La musica non è la discografia. E’ la musica in sé, ciò che conta, non chi la fa”. Certo, volendo è anche vero, ma il novanta per cento di ciò che finora ha riempito il nostro cuore di un certo tipo di emozioni sono le composizioni col nome e cognome degli artisti che l’hanno concepita, con la loro faccia e i loro modi, le loro interviste e dichiarazioni, la loro disponibilità a raccontare il processo creativo. E con i dischi distribuiti, su cui leggere le note di copertina e le (in)formazioni. Vorrei divertirmi a vedere l’umanità dall’oggi al domani invasa da una musica diffusa a livello globale senza più facce, nomi, note di copertina, foto, una trama immaginifico-narrativa entro cui far svolazzare i propri pensieri. Un tutt’uno irriconducibile a nulla se non a essa stessa in quanto successione di note; un pezzo indistinto dall’altro se non in quanto pezzo fatto di atmosfere più o meno originali o più o meno simili. Magari è ciò che accadrà, e la razza umana non avrà alcun problema a convivere con questo nuovo ambito fatto di musica senza supporti e senza facce (non è necessario che siano pop-star o icone)… Ma se accadesse dall’oggi al domani e non nel corso di un processo sufficientemente lento, come per tutte le rivoluzioni tecnologiche, che desolante situazione sarebbe per la maggior parte di noi!

Ma dalle reazioni ho capito quello che in fondo so bene: chi non segue la musica in un certo modo ha come l’idea che vi siano sostanzialmente due categorie di esponenti: i grandi nomi e i fancazzisti che ci provano. E dunque: i grandi nomi sono quelli che guadagnano un sacco di soldi, per cui: di che cazzo si lamentano? Mentre i fancazzisti… che si mettessero a cercare un lavoro serio!

Esistono invece, miei cari lettori, gruppi che danno tantissime emozioni a tanta gente e di cui i media generalisti (italiani) non si occupano se non, al limite al limite, una tantum (e che discorso approfondito ci starebbe qua, in paragone a Inghilterra e America!). E questi musicisti… si fanno un gran culo. (Chissà se devo sottolineare che noi siamo fra questi… Mi sa di sì)

Ovviamente c’è chi la musica la segue in tutt’altro modo. Divertente che per molti di questi i Marlene siano fin troppo famosi; e dunque: “Di che cazzo si lamenta Godano?”. E’ così beffardamente complesso il mondo…La vituperata Siae, infine. Se i dischi si vendessero, sarebbe la nostra unica, modesta pensione. Ma la gente, così dimostrano molti interventi dei lettori, tifa perché venga abolita…Enpals? Altra domanda, per favore.

Mi fermo qua. Ho già preso troppo spazio: eppure quante cose ho dovuto tralasciare! (Lo streaming, ad esempio, il cui concetto alla base non mi piace e/ma con cui non ho ancora elasticità intellettuale, per così dire… Mi costringerebbe a entrare nei meandri di una riflessione laboriosa e lunga per poter immaginare di prevenire o contemplare ogni prevedibile replica. Oppure certi commenti un po’ assurdi, che avrebbero meritato una mia considerazione circostanziata, perlomeno per togliermi due o tre sassolini dalle scarpe). Ma va bene così. Ai musicisti degni (alcuni hanno disperatamente cercato di farsi sentire nei commenti, ma sono stati snobbati) estendo il mio sorriso resistente, a suo modo… partigiano, e auguro di tutto cuore di riuscire sempre a farcela, nonostante tutto.

Buon Agosto a tutti. Ci si ritrova a Settembre :)

Ps1: nella maggior parte delle rimostranze lette aleggia sinistro e scontato il fantasma di vecchie ideologie mai dome alle nostre latitudini. D’altronde siamo il paese che interruppe un concerto di De Gregori al Palalido a Milano perché cercava di vivere con la sua musica, guadagnandoci: gli fecero un processo pubblico… Questo mi procura una tristezza sconfortante. Già: guadagnarsi da vivere con la propria arte. Che male c’è?

Ps2: potete dare un occhio qua…Nella citazione di un passo dell’articolo di Paolo Caffarelli per Ciao 2001 c’è l’immagine di cosa ancora al giorno d’oggi è per molti l’idea di musica. In Inghilterra e in America, patria del rock, a parte certe sparute frange oltranziste, nessuno si fa questo tipo di menate. E vi prego: notate che prendemmo a sassate anche Lou Reed… (anche Santana, anche con bulloni e molotov, pur se qui non se ne fa menzione. E anche a Led Zeppelin e Genesis non si riservarono buoni trattamenti. In nome di cosa? Dei prezzi troppo cari dei biglietti e contro l’industria discografica e la mercificazione culturale. Guarda un po’.)

Ps3: mi pregio di avere pensieri di decrescita (non sistematizzati ma sognanti) da almeno una decina di anni. Non conosco i fondamenti della filosofia di Latouche al riguardo, ma per stemperare posso dire che i musicisti, con la morte del disco, collaborano e rendere meno ingolfato di oggetti il pianeta terra. Chi si offre di contribuire a sua volta?

Ps4: tutte queste chiacchiere andrebbero fatte con premesse storiche e inquadrate in un saggio (ma allora non sarei più adeguato), perché l’industria discografica è relativamente giovane eccetera eccetera. E ancora eccetera eccetera. Ma in un blog si fa quel che si può e si legge quel non troppo che si ha voglia e tempo di leggere: è quindi giusto rimanere al presente e ai suoi immediati passato e futuro. Che ci riguardano direttamente.

 

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