Daniel Barenboim una volta, in una intervista sul quotidiano La Stampa, disse una cosa che, brutalmente sintetizzata, suonava più o meno così: “Se per ipotesi tutta l’umanità ascoltasse la musica con l’adeguato impegno che serve a coglierla nelle sue preziosità non ci sarebbero guerre nel mondo”. Chiaro che si riferisse soprattutto alla musica classica (ma dubito con la volontà di adombrare l’analogo potenziale di altre musiche), e chiaro che il sapore enfatico e paradossalmente ingenuo di tale sentenza spiccia andrebbe valutato leggendosi l’intervista intera: da essa emergerebbe, nonostante l’intento consapevolmente provocatore, tutt’altro che una stralunata dabbenaggine da uomo sulla sua nuvoletta.

Due miei post addietro qualcuno ha ribattuto in modo roboante alle parole che avevo approntato per la figura dell’artista, attribuendo loro, indirettamente, una valenza quasi politica in stile “democrazia-da-rete” che nemmeno lontanamente mi sognavo di dare (si desumeva dalle intenzioni sottese all’uso del verbo “condividere” contrapposto a “subire”, in merito alle esperienze creative) e additandomi, addirittura, di incresciosa esaltazione romantica dell’Artista. Il mio desiderio era invece unicamente quello di far risaltare la bella ingenuità che è tipica di un’indole artistica (la si può avere anche non essendo artisti, nè potenziali nè conclamati: mia madre, professione casalinga, me lo ha sempre inconsciamente dimostrato), disinteressata e volta alla futilità, con i suoi a parte dello spirito, attraverso cui scoprire che, in essi, il mondo è buono. L’affermazione di Barenboim, nella sua  ovvia eccessività, diceva sostanzialmente questo: se gli uomini avessero più a parte dello spirito il mondo non avrebbe guerre. 

La scorsa settimana ho assistito a un concerto di musica jazz a Capronno, in provincia di Varese, nell’ambito delle serate del “Consiglio dalle pareti” curate dal mio amico Tibe (Il gruppo era formato da Yavier Perez Forte, chitarra, Felice Clemente, sax e sax soprano, Massimo Torre, tastiere e fisarmonica) e ho visto un bambino che assisteva allo stesso concerto. Era bellissimo! Vestito come un ragazzino da film di De Sica (coppola grigia in testa, cravatta, bretelle, camiciotto bianco, pantaloncini corti), aveva una allure che avrebbe fatto vibrare di irrefrenabilità gli istinti creativi di Truffaut. Era seduto sui gradini di una scala che portava al piccolo piano superiore di un localino assai grazioso e accogliente, e si lasciava catturare senza resistenze da ciò che vedeva e ascoltava. Vi garantisco: da vedere, per un bambino di sei/sette anni, v’era ben poco, poiché la performance dei musicisti era fisicamente compassata. Dunque la musica, essenzialmente, lo attraeva (musica jazz, non cose, come dire?, catchy) e il rapimento che ne conseguiva era dipinto con una intensità indescrivibile da due occhi sospesi nel vuoto e vagolanti fra la successione aerea delle note. Come se le vedesse sfilare davanti e di fianco a sè, contandole una a una con l’attenzione di chi non vuol perdersi nulla, camuffate da piccoli dettagli degli strumenti che osservava: una chiave di sax, lo sforzo del fisarmonicista nell’allargare e stringere quella strana cosa a mò di vecchio termosifone incartapecorito, la curiosa sagoma di una chitarra dal corpo cavo. Era un incanto incantevole, un a parte dello spirito, perfetto se immaginato su di un fanciullino, adeguato come paragone da sostenere per ricondursi al disinteresse futile e adulto del capoverso precedente.

In un “luogo” simile finii il giorno in cui decisi di scrivere il testo della canzone qua sotto. Non un concerto ottenne un tale effetto, ma un disco: questo. Le condizioni erano giuste, e la mia predisposizione al trasporto ai massimi livelli: quegli attimi in cui i presupposti di un vago straniamento mi permettono di salire sul crinale fra veglia della ragione e sragionamento. La sostanza onirica del primo pezzo fu il preambolo del successivo, in cui la voce di David Sylvian, recitando una poesia con un timbro lavorato elettronicamente e dall’effetto tanto caldo quanto alieno, giunge improvvisa a catapultare in una fertile oasi di ristoro la persona ricettiva all’ascolto.

 

“Da un viale alberato

all’interno dell’auto,

io seduto.

 

Da fuori a dentro… zoom.

Cartografia del cuore:

Arve, David, tromba, voce…”

 

“Mi sento portato altrove, vago.

La mente si accende di qualcosa che

sa di malinconia sensuale.

 

Il mondo è ovattato là fuori e non c’è

disturbo che possa corrompere

quest’oasi eccezionale”

 

Oasi
c) 2010, Ala Bianca Edizioni Musicali 
dall’album ‘Ricoveri virtuali e sexy solitudini’ – Sony Music Columbia

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