Mettete di arrivare fin qui al nord, a Vighizzolo di Cantù. Villette pastrufaziane tra il verzicare dei colli, direbbe il Gran Lombardo (non c’erano ancora i centri commerciali, i centri del mobile, le onnipresenti rotonde). Nel campo sportivo, luci e fumi colorati su un grande palco. Dalla parte opposta, chioschi ben organizzati vendono birre e salsicce. Concerto di Davide Van De Sfroos, incrocio di folk, rock e turbopop in stretto dialetto laghee, la parlata del lago di Como.

Nel pratone, un popolo in festa, giovani e vecchi, ragazzi con maglietta di Dvds (salamandra e missoltino), papà e mamme con bambini, signori in braghe corte nel caldo dell’estate, donne che sorridono, bicchieri di birra, tanti che cantano le canzoni di Davide parola per parola. È lontano il tempo dell’orgoglio leghista, quando anche Van De Sfroos era iscritto d’ufficio al pantheon del Carroccio. Affastellato nella sacrestia bossiana insieme a vecchie ampolle di acqua sgasata del Po, immaginette sbiadite di san Gianfranco Miglio, antiche spillette “viva la secessione”, elmi bicornuti in similplastica, leoni alati con criniera da riporto, cappi da agitare in Parlamento, ricevute del Trota, scontrini di Rosi Mauro e audiocassette di Gipo Farassino.

In verità, Davide Bernasconi da Monza, cresciuto a Mezzegra su quel ramo del lago di Como che volge dall’altra parte, non è mai stato un ortodosso del leghismo. Affondato con la memoria, certo, nel dialetto laghee, con cui confeziona vecchie storie di streghe e contrabbandieri (i “van de sfroos”). Ma con l’immaginario lanciato nell’America dalle mille storie e dalle mille etnie, in fantastiche New Orleans con bambole woo-doo, o nello stralunato Borneo di uno Yanez in infradito da riviera romagnola. Il chitarrista non ha certo in mente purezze etniche borgheziane: gli a-solo rock di Vasco Rossi, semmai, vita spericolata di chi sogna al massimo. Sessantottini di provincia, felici reduci di una Woodstock immaginata. Cauboi (così si chiamano i fan) con voglia di Frontiera: mica nostalgia di Padania. Niente da spartire con fobie gelminiane o (falsi) perbenismi berlusconiani, tutti giacca e cravatta, barzellettine e cene eleganti. Adesso, poi, che l’Umberto è stato imbalsamato, presidente mummia, amato ma compatito, di un partito che ha tradito la sua ragione sociale (una “diversità” perfino più forte di quella comunista), adesso il suo popolo, o almeno quello che lo votava, è di nuovo libero di passare le serate non a fare le ronde, né a spartire appalti e conquistar poltrone, ma ad applaudire, nel campo sportivo di una Vighizzolo di Cantù, un cantastorie un po’ pirata e un po’ sognatore. Postmoderno, Van De Sfroos, di fronte a un Bossi ormai antico. I suoi personaggi si sfidano a duello, come veri barbari sognanti, ma nel momento cruciale estraggono il telefonino (le mogli e le fidanzate hanno pronto da mangiare: la sfida sarà per un’altra volta).

Le radici popolari e l’iPhone si mischiano felicemente: come si dice blackberry in laghee? Non c’è grettezza da ronda padana, ma epopea di trasgressori di provincia, nell’eterno inseguimento di finanzieri a caccia di contrabbandieri: arrenditi Cimino, ma i finanzieri sono quelli con la fiamma gialla sul cappello, non quelli con amici inaspettatamente calabresi delle transazioni in Tanzania e a Cipro. E i contrabbandieri non hanno il suv, né la fabbrichetta, né il commercialista esperto in elusione fiscale. Il fiuto politico del Bossi era tutto nel saper annusare l’aria e dire le cose (anche tremende) che la sua gente voleva sentire. L’incanto si è spezzato. Lo si capisce perfino qui a Vighizzolo di Cantù, ascoltando i bis di Davide Van De Sfroos, la sua balera postmoderna in cui la sottana danza con la canottiera, lei sa di bagnoschiuma, lui puzza di barbera.

Il Fatto Quotidiano, 5 Luglio 2012

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