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“Scegliere di abortire è un diritto. Conosco il dolore di non poter decidere”

A dieci giorni dalla decisione della Corte costituzionale di lasciare intatta la legge 194, Rosa, costretta a partorire il figlio di chi l’aveva violentata, racconta: "Tutti hanno fatto quello che volevano del mio corpo: chi mi aveva stuprato, la mia famiglia, lo Stato. Tutti, tranne me"

“Scegliere di abortire è un diritto. Conosco il dolore di non poter decidere”
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Il 20 giugno Rosa ha chiuso la lavanderia un’ora prima. Nel suo negozio alle porte di Belluno, non ha né computer, né tv, e non ce l’ha fatta ad aspettare: voleva tornare a casa per sapere come era andata a finire «quella faccenda sulla legge 194», come la chiama lei. Ha tirato un sospiro di sollievo quando accendendo la televisione ha sentito queste parole: «La consulta salva la legge sull’aborto». Infatti, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 della legge 194, sollevata dal giudice tutelare del tribunale di Spoleto. «Ho urlato di felicità. Scegliere di abortire è un diritto, non possono rimettere in discussione questa legge. So poche cose, io non ho studiato, ma conosco il dolore di non poter decidere della mia vita», racconta.

Rosa (nome di fantasia, ndr), 42 anni fa, è stata costretta a partorire il figlio di chi l’aveva violentata. Aveva 18 anni quando i genitori l’hanno portata in una «casetta gestita dalle suore» sulle colline venete per nascondere al paese la sua pancia che cresceva. Il 20 marzo del 1960 ha messo al mondo un bambino che ha tenuto tra le braccia per qualche minuto e di cui non ha mai saputo il nome. A quei tempi, l’interruzione di gravidanza era un reato penale, e la sua famiglia non aveva i soldi per permettersi uno di quei medici che lo faceva clandestinamente, i cosiddetti «cucchiai d’oro». «Non avevo scelta: dovevo partorire e dare mio figlio a un’altra donna. Mi sentivo in “gabbia”. Tutti hanno fatto quello che volevano del mio corpo: chi mi aveva violentata, la mia famiglia, lo Stato. Tutti, tranne me», dice Rosa, annuendo.

Rosa è stata stuprata da un vicino di casa. «Una sera, mentre rientravo da un giretto con un’amica, quell’uomo, 20 anni più vecchio di me, mi ha costretta a entrare nel suo giardino, e davanti alla porta d’ingresso della villetta bianca, a 200 metri da quella dei miei genitori, mi ha violentata». Sconvolta per quello che le era successo, per la vergogna e per la paura che non le avrebbero creduto, Rosa non lo ha raccontato a nessuno. «Poi, però, ho capito che c’era qualcosa che non andava perché non avevo più le mestruazioni», racconta, così l’ha detto a sua madre che l’ha portata dal parroco del paese per avere l’indirizzo della «casa delle suore» dove poter partorire «in segreto». «Ho pianto giorni interi, senza mai fermarmi. Se a quei tempi l’aborto fosse stato legale, l’avrei preso in considerazione. Sì, credo che avrei abortito», dice, fissando la finestra.

Poi, però, la vita è andata avanti, 5 anni dopo da quel 20 marzo 1960, Rosa si è sposata, anche se «non passa giorno senza che il mio pensiero torni a quel periodo, a quell’esperienza terribile», racc0nta trattenendo le lacrime.

Nel 1978, quando anche l’Italia ha approvato la legge sull’interruzione di gravidanza, Rosa ha avuto la sua terza bambina, Laura, secondo lei è stato un segno del destino: «Ho pensato che fosse il regalo più bello che potessero farmi: dare la libertà alle mie figlie di decidere del proprio corpo, della propria vita».

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