Condanna le violazioni dei diritti umani e sostiene, non solo a parole, le ragioni dei rivoltosi in Siria. Ma quando si tratta dei diritti umani e delle proteste dei suoi cittadini, la situazione cambia.

Un rapporto pubblicato a fine maggio da Amnesty International racconta come le autorità dell’Arabia Saudita abbiano stroncato, praticamente sul nascere o nelle sue prime timide iniziative, le proteste e le richieste di riforma della primavera 2011.

La repressione è stata particolarmente dura nella Provincia orientale, dove la maggioranza della popolazione è sciita e subisce discriminazioni, come nel settore dei lavori pubblici e nella carriera militare, e lamenta di non poter svolgere in pace i suoi riti e le sue cerimonie religiose.

Le proteste sono iniziate a febbraio ad Awwamiya, per chiedere la scarcerazione di alcuni esponenti religiosi in carcere e sono proseguite, estendendosi ad al-Qatif e portando in strada, a marzo, nonostante i divieti, migliaia di persone. Il motivo della protesta era l’intervento militare nel Bahrein, dove 1200 soldati, carri armati e altri mezzi pesanti erano stati mandati dal re saudita in soccorso alle forze di sicurezza locali.

Dopo centinaia di arresti, spesso di breve durata, le proteste sono diminuite d’intensità lasciando il posto ad altre forme di mobilitazione, tra cui dibattiti sui forum online, diffusione di appelli e contatti con la stampa internazionale. Oltre ad arrestare e a torturare persone sospettate di aver parlato coi giornalisti stranieri, di aver fatto circolare su Internet critiche al governo o di aver pubblicato od ospitato appelli a scendere in piazza, le autorità saudite hanno bloccato almeno due siti.

L’intolleranza verso le critiche politiche si sposa, in Arabia Saudita, con l’intolleranza religiosa, non solo nei confronti delle fedi diverse dall’Islam ma anche contro i musulmani che si prendono eccessive libertà. Ne sa qualcosa Hamza Kashgari, un utente di Twitter che all’inizio di febbraio di quest’anno ha scritto sul suo profilo: “Nel giorno del tuo compleanno non mi inchinerò davanti a te. Di te amo alcune cose ma ne detesto altre, e sul tuo conto ci sono molte cose che non ho capito. Ho amato il tuo essere ribelle ma non amo l’aurea di divinità che ti circonda. Non pregherò per te. Ti stringerò la mano come un tuo pari. Ti parlerò come a un amico, nulla di più.” 

Rifugiatosi in Malesia per fuggire alla rabbia popolare, il governo del paese asiatico l’ha subito rimandato in patria, dove è stato arrestato e sarebbe in attesa di processo per il reato di apostasia, punito con la pena di morte.

Già, la pena di morte. Nel 2011 si è assistito a una profonda ripresa delle esecuzioni capitali, che per lo più avvengono mediante decapitazione in pubblico: 82 in tutto, tra cui cinque donne e 28 lavoratori migranti, al termine di processi gravemente iniqui. La maggior parte delle esecuzioni è avvenuta per reati di droga e omicidio, ma c’è anche la surreale vicenda di un cittadino sudanese, Abdul Hamid bin Hussain bin Moustafa al-Fakki, giudicato colpevole di stregoneria e decapitato a Medina il 19 settembre scorso per aver accettato di fare un incantesimo su incarico di un uomo che lavorava per la polizia religiosa…

Nei primi cinque mesi del 2012 le esecuzioni sono state 29. In attesa del boia ci sarebbero altre 250 persone, alcune delle quali condannate per apostasia e stregoneria.

Oltre 100 persone, sempre nel 2011, sono state condannate alla pena della fustigazione. Tra queste, Shaimaa Jastaniyah, una delle “Donne alla guida”, il movimento che reclama il diritto di guidare per le donne. Trovata al volante di un’automobile, è stata condannata a 10 frustate da un tribunale di Gedda. L’appello contro la sentenza è ancora in corso. 

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