Quando muore uno scrittore e ti tocca scrivere un ricordo, devi sperare che quello scrittore non abbia rappresentato nulla di importante per te, per la tua formazione, per la tua vita. Altrimenti l’approccio all’asettico e manieristico ricordo giornalistico diventa problematico. Ti verrebbe voglia di raccontare a perfetti estranei, ai quali non potrebbe fregare di meno, cosa ti lega a quell’uomo, al suo genio, ai suoi libri. È quello che mi verrebbe da fare, lo confesso, ricordando Ray Bradbury. Eppure, indefesso professionista qual io sono, proverò a evitare la deriva lacrimevole della formazione culturale di un signor Nessuno.

Ray Bradbury non era solo uno scrittore. Si trattava, piuttosto, di un visionario illuminato, un indovino, un Tiresia dei giorni nostri che aveva lanciato lo sguardo oltre lo scibile, oltre il possibile, oltre il presente. Pochi, prima e dopo di lui, ci sono riusciti. Jules Verne, Isaac Asimov, Philip Dick: forse nessun altro.

In Fahrenheit 451 non c’è solo un mondo distopico dominato dall’oscurantismo e dall’ignoranza che soggioga. C’è anche il messaggio positivo e ottimista di un gruppo di “resistenti” che sono già pronti, in mezzo alle macerie che li circondano, a ricostruire un mondo nuovo. Il Moloch totalitario non è ancora sconfitto e loro sono già lì a riprendersi la libertà.

Roba che scritta nel 1953 non era mica così scontata e che superava di slancio il pessimismo di Orwell e del suo 1984. Guy Montag non viene “assorbito” dal regime e il suo tentativo di emancipazione riesce perfettamente. A differenza del Winston orwelliano, il protagonista del romanzo di Bradbury afferma il predominio della libertà individuale sul “sistema”: l’individuo può sfuggire alle maglie strettissime di un regime asfittico se è dotato di una forza di volontà adatta allo scopo.

Ma l’opera di Bradbury non si limita alla distopia ottimista. I ventotto racconti fantascientifici di Cronache Marziane rappresentano una pietra miliare del genere, anche se definire fantascienza il primo capolavoro bradburyano (1950) sembra quasi limitarne la portata. Leggendo il ciclo di racconti sembra quasi che il punto fondamentale non sia Marte, i mezzi di trasporto avveniristici o le altre diavolerie partorite da una mente geniale. Bradbury ci indica la Luna (anzi Marte, pardon) e troppi guardano il dito. Il messaggio è il mito della frontiera, dell’esplorazione. Anche in questo caso Bradbury ha fiducia nell’uomo, nella sua essenza curiosa e intraprendente. Un Ulisse post-moderno che colonizza altri pianeti perché non riesce più a stare nei confini assegnatigli dalla natura ma che ha bisogno, al contrario, di “seguir virtute e canoscenza”. Le colonne d’Ercole sono diventate “spaziali”, non ci sono navi ma astronavi, ma l’uomo è rimasto quello del mito omerico.

Nei suoi due capolavori, Bradbury pone l’accento sulle cose in cui crede di più: la letteratura e l’uomo. E una sua frase più di qualunque altra racchiude alla perfezione l’essenza dei suoi novantuno anni di vita: “Se sai leggere, hai una completa educazione sulla vita, e quindi sai come votare all’interno di una democrazia. Ma se non sai leggere, non sai decidere. Questa è la grande cosa del nostro paese: siamo una democrazia di lettori, e dobbiamo continuare così”. Il grande scrittore si riferiva agli Stati Uniti, ovviamente, ma il senso va bene per qualsiasi latitudine. Ci mancherà, Ray Bradbury. Un uomo che credeva negli uomini che se ne va proprio quando l’umanità sembra aver smesso di credere in sé stessa.

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