Indro Montanelli è un giornalista senza tempo. Un uomo senza tempo. Basta leggere i suoi articoli per percepire non solo la saggezza, ma quanto questa saggezza possa esprimere libertà, possa esprimere pensieri di valore, sia in grado di giudicare, di individuare i colpevoli del gioco delle istituzioni, e non solo. Gli uomini molto spesso si rifugiano dietro le idee politiche, intere correnti ideologiche che vendono una realtà. Sostanzialmente si tratta del gioco dei padroni e degli schiavi, il potere che pensa per te, e non rimane mica molto ad un uomo quando qualcuno gli dice cosa fare, o cosa pensare. Il mestiere di giornalista, soprattutto nel raccontare le vicende politiche e i suoi protagonisti, assume un ruolo chiave, non trascurabile, di imprescindibile importanza come un laccio che deve tenere insieme il linguaggio politico al linguaggio del popolo, infondere consapevolezza, criticità, senza vizi e senza troppe pretese. Lui lo faceva. Non ha mai nascosto l’uomo che era in lui dietro la sua professione, come invece, ahimè, molti giornalisti tendono a fare. Il suo linguaggio era puro, fluido, semplice, sempre attuale, arrivava a chiunque perché il giornalista se non arriva a chiunque, non è un giornalista.

Poteva farlo perché i suoi occhi non erano mai corrotti, non lo erano mai stati, aveva visto l’infamia della guerra, l’infamia della dittatura, e ne raccontava la sua esperienza da uomo non di fede, ma coscienziosamente, da attento osservatore, e le sue parole e i suoi pensieri emanavano (ed emanano) profumo di libertà, come una gradevole sensazione di liberazione dagli schemi, per dirla in gergo popolare ci si vede chiaro quando ci si immerge nella lettura dei suoi scritti. Gli si deve oltre che la massima espressione del giornalismo del popolo e per il popolo anche un vero e proprio viaggio della storia italiana del novecento, attraverso i racconti della guerra, vissuta da lui in prima persona, del terrorismo, dei mutamenti politici e dei fatti storici che hanno segnato un epoca, di cui lui si è dimostrato un più che degno narratore, lui stesso ammette “Io mi considero un condannato al giornalismo, perché non avrei saputo fare niente altro”. Sempre distaccato dalle pressioni del potere, schiavo di nessuno e avverso a qualsiasi assoggettamento e sempre coerente in questo nel corso della sua vita, qualità che fanno di lui una delle figure più significative del novecento, una figura a cui tutti dobbiamo qualcosa, esempio di una categoria sempre più lontana dalla gente e più vicina al potere.

Domenico Maggi