Chiara Civello, Al posto del mondo. Il nome colto del Festival, caro (si dice) ai jazzisti di mezzo mondo. E’ brava, senz’altro. Troppo spesso, però, bisogna fidarsi del sentito dire per crederci. Ogni volta che è chiamata a dimostrare il suo valore, fatica. E’ legittimo che, alle prese con il pop, soffra. Di sicuro la canzone è debole, molto debole. 5

Arisa, La notte. Bistrattata da troppi. Forse per il passato remoto da Paperino, forse per quello prossimo a X Factor. O forse per il presente quasi-sofisticato, con quei tacchi indossati come fossero zappe acuminate. Non è un fenomeno, e non si capisce mai – detto con simpatia – se ci faccia o ci sia. Però la canzone è onesta. Il tocco di Mauro Pagani si avverte. E lei ci prova, con apprezzabile dignità. 6

Eugenio Finardi, E tu lo chiami Dio. E’ molto più a suo agio nel rock (o nel blues). Sanremo gli somiglia poco. E’ il brano non è indimenticabile. Ma è ben scritto, ben cantato. E la stoffa, al netto di qualche ridondanza, è di pregio. 7-

Samuele Bersani, Un pallone. Le sue doti di paroliere sono innegabili. Come cantante, invece, ha sempre un po’ sofferto. La canzone ha bel testo, ma la musica incide poco e suona noiosetta. A Sanremo ha regalato picchi notevoli. Stavolta, si è fermato al “gradevole”. 6+

Matia Bazar, Sei tu. Anacronistici, desueti, fuori tempo massimo. Un po’ Ricchi e Poveri, un po’ Orchestra Casadei. Onestamente: male. 3.5

Francesco Renga, La tua bellezza. Eterna elargizione di stile, tra birignao e un talento tecnico (forse) minore di quanto si creda. Perfetto per chi si accontenta del virtuosismo algido. In salsa melassosa. Eterno alfiere della post-romanza, ha molti estimatori e può trionfare ancora. 5+

Nina Zilli, Per sempre. Se non ci fosse Mina, sarebbe originale. Se non ci fosse (stata) Amy Winehouse, sarebbe suonata inedita. Così, tra un gorgheggio e un gargarismo, sembra tutto – troppo – derivativo. Un po’ di talento c’è, ma il brano è una nenia mica da ridere. 5.5

Irene Fornaciari, Grande mistero. Di fronte a una tale mancanza di eleganza, e grazia, c’è quasi da trasecolare. Più che aggredire il palco, dà la sensazione di volerlo fagocitare. Con inaudita, e ingiustificata, ferocia. A prescindere dalla interprete, verosimilmente non al meglio, il grande mistero è se davvero non ci fossero – in tutta Italia – canzoni migliori di questa da dare in pasto all’Ariston. 4

Carone-Dalla, Nanì. Carone è l’autore del testo in cui Scanu faceva l’amore in tutti i laghi (curiosa forma di perversione lacustre). La canzone affronta torbido e prostituzione, “venti euro di verginità” e “camionisti da accontentare”. Rischio retorica brillantemente superato, nel senso che nessuno si è posto il problema. Dalla, direttore d’orchestra, aggiunge enfasi e teatralità. A metà del guado (e del lago). 5.5

Marlene Kuntz, Canzone per un figlio. Dovevano recitare la parte degli alternativi che sfidano il nazionalpopolare, ma non ha funzionato: vecchi fan inviperiti, nuovo (presunto) pubblico freddissimo. E Cristiano Godano, il cantante, deve smetterla di farfugliare (o urlare) quando canta: vie di mezzo, mai? Occasione persa, e di fatto sbagliata, per una band meritevole. Che non è andata oltre il compitino. 6-

D’Alessio/Bertè
, Respirare. Ci si attendeva l’orrore, in realtà il brano è meno brutto di quanto tutti temessero. Ma va anche detto che tutti, in merito, erano assai pessimisti. E non è poi così difficile risultare appena più gradevoli dell’Armageddon. 5-

Dolcenera, Ci vediamo a casa. Di questa eterna promessa, non si è mai capito bene per chi, ammalia l’invidiabile mancanza di idee chiare. Dolcenera è l’idea che i puffi hanno di Morgan. Un po’ fatalona (ma anche no), un po’ artista che affronta temi scabrosi. Tutto e niente. Soprattutto niente. 4-

Noemi, Sono solo parole. Parte piano, poi esplode come un esercito di mine astiose. Ripete ottocento volte “Sono solo parole”, con quella voce rugginosa che è sua cifra e forse condanna. La sensazione è che la ragazza – e non è l’unica – confonda la grinta con l’ostentazione d’ugola. Il paragone con Janis Joplin, azzardato da chi l’ha presentata la prima sera, è semplicemente da arresto. C’è di peggio, ma anche di meglio. Molto meglio. Anche se forse non all’Ariston. 5.5

Emma, Non è l’inferno. Il titolo della canzone, senza il “non”, può essere preso come recensione perfetta. Urla a casaccio, voce sguaiata, strofe intrise di retorica “impegnata”. Sembra quasi che Emma debba perennemente dimostrare al mondo che “non è solo quella della De Filippi”. Si rassereni. E, nel suo piccolo, gioisca. Il suo Sanremo vanta senz’altro una cosa bellissima: il jingle di Jimi Hendrix che, senza alcun motivo, la introduce ogni sera. 4.5

Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2012

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