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Così Milano scoprì
la mafia

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Milano sta vivendo una svolta silenziosa. Dopo almeno tre decenni di sottovalutazione della penetrazione mafiosa in città, finalmente il problema è affrontato. Milano guarda in faccia il suo lato oscuro. Accetta di fare i conti con una trasformazione sotterranea, ma tutt’altro che invisibile, che l’ha fatta diventare la capitale della ‘ndrangheta.

Milano era la città dove “la mafia non esiste”. Lo hanno ripetuto per anni, inutilmente smentiti dai fatti, sindaci, assessori, prefetti, uomini dell’impresa e della cultura, pavoneggiandosi della forza, in città, della moda e del design, della finanza e della comunicazione, dell’intrapresa e del volontariato. Come se si potesse fare la somma algebrica delle realtà sociali e se i fenomeni positivi potessero annullare quelli negativi. Ora la nuova amministrazione ha invertito la direzione di marcia. Il sindaco Giuliano Pisapia ha voluto un comitato antimafia di esperti formato da Nando dalla Chiesa, Umberto Ambrosoli, Luca Beltrami Gadola, Maurizio Grigo, Giuliano Turone. Comincerà a lavorare anche la commissione “politica”, espressione del Consiglio comunale, presieduta da David Gentili. È una novità radicale per Milano, che potrà finalmente affrontare i nodi della lenta occupazione mafiosa di pezzi dell’impresa e della politica.

Ormai ci sono condannati per associazione mafiosa che hanno storie e nomi del tutto lombardi (Maurizio Luraghi). Ci sono grandi imprese del Nord che hanno aperto le porte alle cosche e ne sono state risucchiate (la Perego). Ci sono fenomeni che dimostrano l’alto grado d’inquinamento di alcune attività economiche (130 incendi nei cantieri lombardi in un paio d’anni: autocombustione?). Ci sono tredici politici eletti in Lombardia con i voti della ‘ndrangheta (lo afferma il pm di Reggio Calabria, Nicola Gratteri). È già tardi, non si può aspettare ancora. La politica finora non ha dimostrato interesse a capire che cosa sta succedendo. Non abbiamo visto alcun brivido attraversare le schiene dei leader dei partiti e dei responsabili delle amministrazioni, dopo la sconvolgente dichiarazione di Gratteri. Nessuno ha chiesto chi sono, i tredici uomini delle cosche nella politica, nessuno ha annunciato di volerli scoprire e cacciare, per ripulire partiti e istituzioni. E tra gli imprenditori, non è ancora maturata una coscienza diffusa che porti a resistere alle lusinghe e alle minacce dei boss.

Milano si scopre più arretrata di Palermo, indietro di almeno vent’anni. In Sicilia gli imprenditori che pagano il pizzo sono espulsi dalla Confindustria guidata da Ivan Lo Bello. E Palermo ha avuto un Libero Grassi, imprenditore ucciso vent’anni fa da Cosa Nostra perché aveva annunciato pubblicamente che non avrebbe accettato le estorsioni, ma ha anche un movimento come Addiopizzo, che ha fatto diventare pratica diffusa la scelta purtroppo solitaria di Libero Grassi. Milano ha avuto Giorgio Ambrosoli, “l’eroe borghese” che si è opposto a Michele Sindona, grande riciclatore della mafia, ma non ha ancora avuto un movimento che si opponga alle infiltrazioni delle cosche nelle attività economiche e nella politica. Ora tocca alla Lombardia. Segnali positivi arrivano finalmente dal presidente di Assolombarda, Alberto Meomartini e di Assimpredil, Claudio De Albertis. L’amministrazione di Milano ha varato gli strumenti per farla davvero, la lotta antimafia, che non può essere delegata soltanto ai poliziotti e ai magistrati.
Siamo all’anno zero, non c’è tempo da perdere, ma questa volta si può fare.

Il Fatto Quotidiano, 26 Gennaio 2012

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