Automobili, motociclette, scooter e perfino autobus. Le fabbriche d’eccellenza delle quattro e delle due ruote di quella che una volta era la motor valley bolognese si stanno fermando una dopo l’altra. Lunedì l’ultima ferale notizia. Da tempo si sapeva che la Malaguti avrebbe chiuso. In Regione, al “capezzale” dell’azienda, si è solo staccata la spina a un malato terminale e deciso che il prossimo 31 ottobre si abbassano definitivamente le serrande e si mandano a casa gli operai. La notizia è stata tuttavia occasione per l’ennesimo allarme: tutto il settore a Bologna si sta fermando e almeno in cinquemila nella zona sono a rischio del posto di lavoro.

La Fiom-Cgil aveva chiesto all’azienda (che già da aprile aveva fermato la produzione mandando quasi tutti i 170 lavoratori in cassa integrazione) di prolungare gli ammortizzatori sociali al fine di agevolare la ricollocazione dei dipendenti in un altro posto di lavoro. Da tempo era ormai chiara l’intenzione della famiglia Malaguti di chiudere subito la partita con i suoi ormai ex operai. Non è un caso che pur di accelerare il licenziamento ed evitare una dura battaglia, agli operai è stata promessa una buonuscita di 30 mila euro lordi (poco più di 20 mila netti). Meglio di niente, avranno pensato in molti tra i lavoratori.

Alla base della scelta di chiudere lo stabilimento di Castel San Pietro c’è sicuramente la crisi che il settore sa attraversando da diversi anni. Una crisi che – anche secondo i lavoratori tradizionalmente molto legati alla proprietà anche a livello affettivo non è stata però affrontata coi giusti investimenti e con le innovazioni che sarebbero servite a battere una concorrenza straniera sempre più agguerrita. “È come se i nostri capi si fossero lasciati andare a un destino ineludibile”, il commento che si sente maggiormente tra i lavoratori.

Destino ineludibile o no, oggi il segretario della Fiom di Bologna Bruno Papignani ha insinuato un sospetto molto grave nei confronti della famiglia proprietaria: “L’azienda vuole levarsi il carico dei lavoratori e preferisce accontentarli con questi 30 mila euro, il motivo lo possiamo immaginare”, spiega Papignani. Del resto, alla famiglia rimane una marchio, un grande capannone e un capitale di circa 40 milioni. “Penso che qualche operazione avverrà – azzarda Papignani, lasciando intendere la possibilità di una prossima vendita – Sicuramente l’azienda non ha voluto vendere con gli operai dentro”. Ora insomma il pacchetto per dei possibili acquirenti sarebbe molto più appetibile.

Questo si vedrà dal 31 ottobre, quando la fabbrica chiuderà i battenti (escluso il settore ricambi, che rimarrà aperto per qualche anno per garantire l’assistenza ai clienti). Di certo c’è che quei 30 mila euro di buonuscita hanno anche creato tensioni tra la Fiom-Cgil, che chiedeva di lottare per proseguire la produzione, e molti degli operai che da tempo avevano capito le intenzioni dei fratelli Malaguti. La scelta è irrevocabile: chiudere ora che i conti dell’azienda sono ancora apposto. “Se l’azienda va in fallimento non vedremmo più neppure quei 30 mila euro”, hanno ragionato gli operai.

Così oggi, nel day after della dolorosa sconfitta rimediata alla Malaguti, la Fiom bolognese rilancia la lotta e si prepara allo sciopero indetto dal sindacato nazionale per il prossimo 21 ottobre. Lo sciopero sarebbe in realtà dei soli lavoratori Fiat, ma la Fiom bolognese porterà a Roma i lavoratori di tutto il settore del ciclo e del motociclo che nella sola provincia conta oltre 40 aziende e cinquemila addetti. “Andiamo a Roma perché temiamo che il modello Marchionne potrà essere emulato da molte fabbriche della motor valley bolognese”, ha spiegato Papignani.

Un motivo per portare i lavoratori bolognesi fino a Roma, spiegano i metalmeccanici bolognesi, è anche quello di fare pressione perché il governo la smetta di latitare e provi a rilanciare il settore. Innanzitutto, propongono i sindacalisti, con il rilancio di un piano nazionale che rinnovi i mezzi del trasporto pubblico e di quello privato.

Nel frattempo tanto per citare alcuni casi nella cronaca di questa crisi, la Ducati Motors, che già compra pezzi all’estero, si prepara ora ad aprire uno stabilimento in Thailandia. La Moto Morini è stata invece venduta all’asta a due imprenditori milanesi, che da luglio a oggi non hanno presentato uno straccio di piano per il rilancio della fabbrica di Casalecchio di Reno. A preoccupare è però anche la Breda Menarini Bus, l’azienda controllata da Finmeccanica. Pare infatti che ci sia una trattativa aperta con un gruppo turco per la possibile vendita parziale o totale dell’azienda. Ma i turchi, fanno sapere i sindacati, vogliono portare gli organici da 300 addetti, quanti sono oggi nella fabbrica bolognese ad appena 60.

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