Iperprotettivi al punto che un bambino di 6 anni, come sostenne il padre all’inizio di questa storia, non solo si comportava come se fosse più piccolo, ma aveva anche difficoltà a camminare. Oggi, a 4 anni di distanza dalla condanna di primo grado, pronunciata dal tribunale di Ferrara e confermata successivamente dalla corte d’appello di Bologna, è giunta la Cassazione. Che in via definitiva ribadisce: per le eccessive attenzioni al bimbo una madre, E. G., e un nonno, G. G., si sono visti comminare 1 anno e 4 mesi di reclusione. Con il loro comportamento, infatti, avrebbero “ritardato lo sviluppo del bimbo con eccessive cure e attenzioni” e “l’iperprotezione e l’ipercura costituiscono reato di maltrattamenti”.

La vicenda era emersa dopo la separazione di una coppia con un figlio che era rimasto a vivere con la madre e con il nonno. Un bambino che presentava una serie di stranezze di comportamento, tra cui – sostenne il genitore – il rifiuto di qualsiasi contatto con la figura del padre. Ne era derivata prima una denuncia e poi un’inchiesta, durante la quale i due indagati si erano difesi sostenendo che nel loro comportamento non si poteva ravvisare alcuna sopraffazione perché al piccolo non era mai stata usata violenza psichica o fisica né era stato costretto a compiere attività come elemosinare.

Inoltre, sostennero i loro legali, il piccolo non si sarebbe riconosciuto nei panni della vittima né avrebbe presentato alcun disturbo nella crescita. Insomma “gli atteggiamenti di iperprotezione o di ipercura, lungi dal costituire i maltrattamenti, integrano la ripetizione di condotte che nascono come positive e certo ispirate da intenzioni lodevoli, salvo poi riverberare effetti negativi su chi tali condotte subisce a causa della loro eccessiva e patologica esasperazione”.

In sede di giudizio, tuttavia, i giudici in tre differenti gradi hanno dato torto a mamma e nonno. Con la sentenza 36503 pronunciata lo scorso 23 settembre, la suprema corte ha ravvisato un “eccesso di accudienza”, come è riportato nel testo, che non troverebbe alcuna giustificazione nelle cure normalmente rivolte a un bambino. Inoltre, si prosegue nelle motivazioni, è plausibile che “inizialmente la diade ‘madre-nonno’ possa avere agito in buona fede, sia pur secondo una falsa coscienza, nella scelta delle metodiche educative e nella accurata attenzione ad impedire contatti di ogni tipo al bambino, isolandolo nelle sicure ‘mura domestiche’”.

E lo avrebbe fatto abbastanza a lungo da esagerare e creare un danno al piccolo tanto che qualsiasi contatto fisico, anche con il padre, veniva evitato. Inoltre ci sarebbero stati problemi anche con i coetanei, oltre che con la parte restante del contesto sociale, schivati tutti al pari del genitore. Di qui, oltre a quello fisico, il problema relazionale che viene “assimilato alla violenza fisica a prescindere dalla consapevolezza della vittima di subirla”.

La vicenda, che vede anche un “processo bis” conclusosi in primo grado a Ferrara nell’aprile 2010 con la condanna a tre anni e mezzo per il nonno, tre per la mamma e due anni per la nonna, è importante “non solo perché cristallizza il fatto considerato reato, ma anche perché introduce una ipotesi innovativa nel nostro diritto”, commenta l’avvocato Henrich Stove che assiste il padre: “quella che viene impropriamente definita iperprotettività non è una condotta in buona fede, ma un comportamento distruttivo”.

In termini tecnici la giurisprudenza introduce con questa sentenza la Pas, sindrome da alienazione parentale. “Queste condotte di sottrazione della figura genitoriale – prosegue Stove – vengono così equiparate giuridicamente a una violenza, a un maltrattamento. E lo stesso vale per le condotte omissive, come impedire al figlio di vedere il padre o impedirgli di socializzare”,

di Antonella Beccaria e Marco Zavagli

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