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Drive, un cult naturale

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Contrariamente a quanto si pensa alcuni film nascono già cult, passateci l’abuso del termine. Pur non avendo ancora affrontato la determinante prova del tempo, sono oggetto di venerazione immediata, punto di riferimento e metro di paragone nelle chiacchiere degli appassionati, nelle tirate della critica, nell’affetto del pubblico più attento. A trasformarli in qualcosa che potrà anche non essere una devozione vera e propria, ma gli si avvicina davvero parecchio è la loro stessa essenza: Drive (2011) – da oggi nelle sale in 300 copie – appartiene alla categoria a buona posta, sia per la materia del racconto sia per il modo in cui lo conduce verso un inesorabile finale che resta scolpito nella memoria com’è tradizione del geniale danese Nicolas Winding Refn.

L’uomo dietro al disturbante Bleeder (1999) e alla tostissima trilogia di Pusher, sceso negli inferi del mito con il riuscitissimo, ipnotico e quanto mai brutale Valhalla Rising (2009) – distribuito da noi, colpevolmente, solo in home video – esibisce fin dagli esordi uno stile riconoscibile e poderoso, fatto di silenzi ed esplosioni di puro nichilismo. Che racconti la storia di uno dei criminali più temuti d’Inghilterra nell’inventivo Bronson (2008) o lavori sul confine tra dolore e amore, responsabilità e autodistruzione come fa in quest’ultima pellicola premiata a Cannes, sente il cinema come inclinazione alla sopravvivenza e alla libertà, gesto catartico e fiamma. Assurto presto al Pantheon dei cinefili, il suo rabbioso percorso ha via via fidelizzato un buon numero di spettatori grazie a una coesione interna che non si vedeva da un po’, figuriamoci poi se l’aiuola di riferimento è quella mezza appassita dei “giovani cineasti europei”.

Nelle luci di una Los Angeles inedita eppure legata a parecchi ricordi di celluloide – difficile non pensare al dimenticato Driver l’imprendibile di Walter Hill – un uomo senza nome, stuntman part-time che di giorno fa il meccanico e di notte guida la macchina per dei rapinatori, segue il proprio istinto, cerca un contatto con il mondo, aiuta la ragazza di cui si è innamorato perdendosi nella città e nell’asfalto. Ecco un film da andare a vedere.




Contrariamente a quanto si pensa alcuni film nascono già cult, passateci l’abuso del termine. Pur non avendo ancora affrontato la determinante prova del tempo, sono oggetto di venerazione immediata, punto di riferimento e metro di paragone nelle chiacchiere degli appassionati, nelle tirate della critica, nell’affetto del pubblico più attento. A trasformarli in qualcosa che potrà anche non essere una devozione vera e propria, ma gli si avvicina davvero parecchio è la loro stessa essenza: Drive (2011) – da oggi nelle sale in 300 copie – appartiene alla categoria a buona posta, sia per la materia del racconto sia per il modo in cui lo conduce verso un inesorabile finale che resta scolpito nella memoria com’è tradizione del geniale danese Nicolas Winding Refn.


L’uomo dietro al disturbante
Bleeder (1999) e alla tostissima trilogia di Pusher, sceso negli inferi del mito con il riuscitissimo, ipnotico e quanto mai brutale Valhalla Rising (2009) – distribuito da noi, colpevolmente, solo in home video – esibisce fin dagli esordi uno stile riconoscibile e poderoso, fatto di silenzi e esplosioni di puro nichilismo. Che racconti la storia di uno dei criminali più temuti d’Inghilterra nell’inventivo Bronson (2008) o lavori sul confine tra dolore e amore, responsabilità e autodistruzione come fa in quest’ultima pellicola premiata a Cannes, sente il cinema come inclinazione alla sopravvivenza e alla libertà, gesto catartico e fiamma. Assurto presto al Pantheon dei cinefili, il suo rabbioso percorso ha via via fidelizzato un buon numero di spettatori grazie ad una coesione interna che non si vedeva da un po’, figuriamoci poi se l’aiuola di riferimento è quella mezza appassita dei “giovani cineasti europei”.


Nelle luci di una Los Angeles inedita eppure legata a parecchi ricordi di celluloide – difficile non pensare al dimenticato
Driver l’imprendibile di Walter Hill – un uomo senza nome, stuntman part-time che di giorno fa il meccanico e di notte guida la macchina per dei rapinatori, segue il proprio istinto, cerca un contatto con il mondo, aiuta la ragazza di cui si è innamorato perdendosi nella città e nell’asfalto. Ecco un film da andare a vedere.

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