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Giovan(n)i senza futuro

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“Ciao, io sono Giovanni e ho tle anni. E tu?”“Io due” , gli ha risposto mio figlio, mostrando con orgoglio tutte e cinque (!) le dita della sua mano destra. Poi hanno giocato insieme nel bellissimo mare della Costa Smeralda, con il pallone che avevamo appena comprato.

Anche Giovanni aveva un bel pallone, ma non poteva toccarlo. Gli è permesso solo vederlo.

Giovanni non è un bambino come tutti gli altri. Gira circondato da una montagna di giocattoli, dedica solo pochissimi minuti ai suoi piccoli amici e sparisce subito, veloce come è arrivato. Insieme alla sua giovane mamma. Per l’esattezza Giovanni gioca solo 3 minuti, ogni volta.

Giovanni segue la sua mamma, una giovane immigrata cinese, ancora clandestina, che vende giocattoli in spiaggia. La mamma lo porta con sé per fargli fare un po’ di mare, regalandogli un’apparenza di normalità, e anche perché non sa a chi lasciarlo. Giovanni è contento e se ne è fatto una ragione: anche se lui il mare lo vede camminando dietro la mamma carica di balocchi con i quali lui non può giocare è sempre più fortunato dei molti altri bambini cinesi, coreani, vietnamiti, indonesiani, indiani che hanno dovuto costruirli, quei giocattoli.

Ogni mezz’ora la mamma gli regala tre minuti di libertà: le sue vacanze. E Giovanni è socievole. Fa subito amicizia e si diverte a giocare.

Giovanni parla già meglio di tanti suoi coetanei, ma probabilmente non potrà studiare. Non potrà andare a scuola. Non potrà avere la vita normale dei suoi amichetti di spiaggia. Avrà una vita senza diritti. Sarà difficile spiegargli perché, ma è così. La mamma è clandestina e se iscrive il figlio a scuola rischia l’espulsione. Lo stesso rischio corre se deve andare in ospedale.

Peggio per lei. “Non è affar nostro”“La legge mica l’abbiamo fatta noi”. E poi noi la mamma la vogliamo, in fondo in fondo, in Italia: quando dimentichiamo a casa la paletta e il secchiello ci evita il fastidio di sentire le strilla del nostro bambino che piange, rovinandoci la chiacchierata in spiaggia con gli amici.

Più che accettarla, direi che la tolleriamo. E solo perché ci rende un servizio. Come tanti manovali che ci costruiscono le case e le strade rischiando la vita. Come gli operai immigrati che respirano gas tossici nelle imprese in cui noi italiani non vogliamo più lavorare. Come gli immigrati che ci colgono i pomodori a tre euro al giorno, per dodici ore consecutive, sotto il sole cocente. Come le badanti in nero e sottopagate che ci tengono la vecchia nonna nel sole di agosto.

“Devono solo ringraziarci”. “Al loro Paese non avrebbero di che mangiare”. E poco importa se non hanno diritti, nemmeno quelli fondamentali.

Del resto è sempre stato così, sin dai tempi dell’antica Roma.

È vero. Ma allora avevamo il coraggio di chiamavarli schiavi.

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