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Juan Antonio Felpa e le lacrime per il River Plate

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Juan Antonio Felpa, operaio delle Fabbriche Unite, portiere dello Sportivo Atletic Club. E’ lui il primo argentino che mi viene in mente nell’istante in cui si consuma la drammatica retrocessione del River Plate dopo più di un secolo di storia leggendaria.

Felpa, tifoso accanito dei Millionarios, il mitico portiere Amedeo Carrizo come santino di riferimento, è invenzione letteraria di Jorge Valdano, il fuoriclasse filosofo, un tempo stella nel suo paese dei Newell’s Old Boys, Campione del Mondo nell’86 con Maradona, il dirigente illuminato sconfitto in carriera una volta sola, da Mourinho, nelle recenti faide madridiste. Penso a Felpa “il gatto”, il “Carrizo del popolo”, coi pantaloni corti imbottiti e trapuntati nei fianchi,  col berretto a quadri simile a quello del grande guardiano del River e sempre senza guanti perché, sosteneva, “mi tolgono sensibilità”. Una passione forte, divorante, non condivisa dal padre agricoltore, don Jesus Eladio, non solo perché con i suoi balzi gli spaventava le lepri ma soprattutto perché convinto che “i portieri fossero mezzi imbecilli”. Eppure capace di rimuovere il pregiudizio e di guardare le partite da dietro la porta, anche se, con le sue urla, “dava più fastidio che incoraggiamento”.

Penso a Felpa, a questo ragazzone di gusti semplici e popolari, con le mani a tenaglia, orgoglio della fabbrica, col padrone sempre pronto a dargli fiducia: “Juan, domenica devi fare bella figura, eh?”. Così rigoroso nelle sue certezze, così fiero nelle sue oneste consapevolezze: “Quelli del paese giocano per la maglia, quelli di fuori giocano per i soldi”. Ecco, penso a lui, a quelli come lui, “a quegli argentini che, avendo poco, non sentono il bisogno di avere di più”, e rifletto sul dolore che in queste ore ha fatto crollare il Monumental. Col River in B, gli ultrà a lordare la sofferenza, il club in odore di bancarotta. Triste, solitario y final. Ma qui c’è un’amarezza ancora più profonda. Succede, quando viene stracciata l’anima di chi vive il calcio come sacramento esistenziale. Come Juan Antonio Felpa, appunto.

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