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Crisi, negli Usa si ragiona. Da noi no

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Ne ha scritto l’altro ieri Federico Rampini su Repubblica. Le 13 idee per rifondare il capitalismo. “Cosa si può cambiare per renderlo meno distruttivo e più centrato sui reali bisogni dell’umanità?” Il dibattito lo ha lanciato la bella rivista The Nation (una sorta di Liberation degli Usa) che ha riunito in America imprenditori, innovatori, giuristi, studiosi che hanno elaborato 13 grandi progetti, riforme a costo zero, per cambiare da subito. Il tenore delle idee emerse è questo:

– Più società cooperative con finalità sociali;
– Controllori indipendenti nei Cda;
– Tassa sulle transazioni finanziarie per ridurre il peso di Wall Street e della speculazione;
– Maggior potere d’intervento al Governo (uno Stato più forte, non più grosso);
– Smettere di considerare il Pil come unico indicatore del benessere economico;
– Togliere la responsabilità limitata delle aziende rispetto ai danni provocati dalle loro attività;
– Detrazioni fiscali alle retribuzioni e ai bonus solo se coinvolgono la maggioranza dei lavoratori;
– Investire nelle aziende che lavorano per la sostenibilità a lungo termine;
– I compensi dei manager delle grandi aziende devono seguire le stesse regole di quelli delle piccole; eccetera.

C’e chi lo battezza “capitalismo inclusivo” o “capitalismo democratico”. L’assunto di base, sotto gli occhi di tutti, è che il capitalismo è finito. Forse traeva sostentamento dalla sua opposizione a un altro sistema, la cui applicazione risultava ancor più fallimentare. Certo è che l’esigenza avvertita un po’ dovunque è quella di creare le condizioni per un nuovo umanesimo, capace di comandare l’economia, di ridurre lo strapotere della finanza, limitare le disuguagliaze, modificare la gerarchia tra lavoro e vita.

Da qualche tempo vado ripetendo che se dovessi andare a votare alle elezioni politiche, sarei davvero tentato di andarci e votare scheda bianca. Non vi dico la valanga di critiche che ricevo ogni volta che lo dico. Io sono di sinistra, o almeno così ho sempre pensato. Se si potesse pagare del denaro per far cadere politicamente Berlusconi farei subito un’offerta, anche se di soldi ne ho pochi. Il problema però è che a sinistra non trovo alcuna riflessione su questi temi. Sento fare discorsi sulla ripresa economica, sulla necessità di far crescere nuovamente il Pil, con svarioni eclatanti e suicidi come quelli del Pd sull’acqua (dovendosi poi ricredere pesantemente per evitare disfatte referendarie) o sulla Tav (sarà un altro Vietnam per la sinistra, vedrete). Nessuno che, nel suo programma, mi dia la sensazione di aver ripensato il nostro sistema economico e sociale. Nessuno che immagini il mondo nuovo di cui abbiamo urgentemente bisogno. Nessuno che faccia come The Nation, che almeno ci provi dunque.

La politica di cui abbiamo bisogno deve riferirsi a un nuovo modello economico e sociale post-comunista e post-capitalista, capace di fare una sintesi tra questi due modelli le cui applicazioni pratiche sono entrambe concluse, fallite. Un sistema che preveda un limite alla schiavitù del lavoro, meno spazio al consumismo dilagante, meno sprechi di risorse, risparmio energetico, decrescita intelligente, una decisa limitazione allo strapotere economico e finanziario. Solo per dirne alcune. Ma nessuno sta ragionando su questo. Dove sono i nostri intellettuali, dove sono i nostri nuovi Berlinguer, che nel gennaio del 1977, con enorme coraggio, pronunciò due discorsi sull’austerità, sulla limitazione dei consumi e degli sprechi, immaginando che questa fosse la via per contrastare l’affermazione drammatica del capitalismo egemone? Attirò su di sé le critiche di gran parte dei suoi compagni di partito. Gli stessi compagni che oggi assicurano che, con loro, il Pil riprenderebbe a crescere.

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