Stavolta la prendiamo un po’ larga, per parlare di un libro bellissimo (Antonio Roccuzzo, Mentre l’orchestrina suonava Gelosia, Mondadori).

Uno dei più bei libri mai scritti da uno storico iniziava con queste parole: “Papà, spiegami a che serve la storia”. Marc Bloch, francese, prigioniero dei tedeschi nel 1944, nelle settimane che precedettero la sua fucilazione decise di rispondere a quella domanda di suo figlio, lasciata inevasa anni prima, e così lasciò un piccolo grande capolavoro, “Apologia della storia”, a tutti quelli che leggendolo si sono sentiti figli anche loro.

Un libro simile Pippo Fava non ha potuto scriverlo perché i killer della mafia lo uccisero senza preavviso, nei primi giorni del 1984. Però seminava ogni giorno un piccolo insegnamento, depositando nella testa dei fortunati giovani che lo ebbero per maestro mille conoscenze e una sola idea fissa, così riassumibile: “A che serve il giornalismo? A tutto. Senza giornalismo non c’è politica, non c’è democrazia, non c’è giustizia, non c’è conoscenza. Non c’è niente”.

Antonio Roccuzzo aveva 25 anni quando gli ammazzarono il maestro e ha aspettato di essere padre (e ultracinquantenne com’era Fava) per scrivere il libro che “il direttore” non scrisse: una spiegazione ad uso dei figli e dei giornalisti più giovani dell’utilità di questo mestiere. Un libro così non lo può scrivere un ragazzino e neppure un trombone. Roccuzzo, diventato adulto di colpo la sera in cui imparò che di giornalismo si può morire, è cresciuto senza mettersi medaglie sul petto e senza mai prendersi troppo sul serio, pregio del bravo giornalista raro tra quelli che hanno visto da vicino il piombo mafioso.

Già il titolo del libro è un esercizio di ironia e leggerezza. “Mentre l’orchestrina suonava Gelosia” fu il titolo della sua prima cronaca di un omicidio di mafia, sceneggiato da Fava su un particolare inesistente: la musica, sulla scena del delitto, proveniva da un mangiacassette. Il giovane Roccuzzo si ribella: “Non c’era orchestrina!”. Fava sorride: “E’ più efficace così”.

E dunque Fava non era un santo, non era un eroe, men che meno un’aspirante icona. Eccolo nel ritratto che il giovane allievo ha trattenuto per trent’anni, in attesa di poterlo raccontare con affetto paterno:

Era un uomo pignolo e scanzonato, con le debolezze e le fissazioni di ogni siciliano: i grandi piatti di spaghetti con salsa, basilico, ricotta salata e melanzane, una buona nuotata, la passeggiata sul corso di Taormina. Il sole. Le donne. Il sesso. I sogni realizzati un attimo dopo averli fatti. L’instancabile voglia di raccontare e raccontarsi. La voglia di ridere e di dissacrare i potenti.

Aveva la sfrontatezza e l’allegria di un ventenne. Giocava a calcio, preso in giro dagli amici: grande stratega e teorico negli spogliatoi, in campo era un disastro, ma non lo avrebbe mai ammesso. Si appassionava alla competizione sportiva, senza violenza, per misurarsi con gli altri. Voleva vincere. Non metteva mai in preventivo la sconfitta e, proprio per questo, non era, né sarebbe mai stato, un eroe retorico.

Gli piaceva troppo vivere e per questa semplice ragione credo che non avesse mai pensato di poter diventare – un giorno – lui stesso un simbolo o un eroe: è solo che non immaginava di vivere e fare il suo mestiere di cronista in un modo diverso. Aveva paura di invecchiare e amava troppo la vita, anche le piccole debolezze che te la fanno godere e alle quali non avrebbe mai rinunciato.

Fava, che non aveva messo in conto di lasciarci la pelle, era circondato, prima al Giornale del Sud e poi a I siciliani, da un gruppo di ventenni che erano il suo orgoglio di padre-maestro e come lui credevano al giornalismo e non alla politica. E così il racconto di Roccuzzo di come si diventava giornalisti “in una tranquilla città di mafia” come Catania, si dipana scanzonato, divertente,  autoironico, e tu leggi volentieri. Prende in giro la sinistra catanese che dice “nella misura in cui” e tu sorridi. E poi ti racconta che dopo l’uccisione di Fava viene ricevuto (con Claudio, allievo e figlio vero) al Quirinale dal presidente Pertini che agita la pipa e annuncia tonante: “Sì, mi ricordo la mafia!”, e loro appena fuori scoppiano a ridere e tu ridi con loro.

Così, pagina dopo pagina, tu sei grato all’autore che ti racconta la sua storia di giornalista di mafia senza ammorbarti e senza farti sentire un po’ stronzo perché alla stessa età scrivi o scrivevi articoletti di bianca in una tranquilla provincia da un omicidio all’anno. Fino a che ti trovi intrappolato. In un crescendo di grande qualità letteraria il tono comincia a indurirsi, e il racconto si fa, nella giusta misura, drammatico. Fava viene ucciso in una città dove per convenzione “la mafia non esiste”, perché “Catania è più civile di Palermo”, dove molti si girano dall’altra parte e dove il sussulto di sensibilità popolare dura fino al primo anniversario dell’esecuzione. “I siciliani” chiude, i ventenni ex incoscienti si disperdono, le malelingue insinuano che chissà chi l’ha ammazzato e perché, magari per una storia di donne. Ci vorranno quindici anni e un pentito per individuare nel boss Nitto Santapaola il mandante dell’omicidio Fava, per poter solo dire che quel giornalista fu ucciso dalla mafia. E ventisette anni per maturare il passo giusto del racconto di “un esempio non retorico da indicare ai ragazzi”.

Esempi non retorici da indicare ai ragazzi. Ecco a che serve il giornalismo.

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