Il boia di Bolzano, caporale delle SS Michael "Misha" Sefert

Solo un gesto di pietas cristiana da parte del commissario straordinario del comune di Santa Maria Capua Vetere – il prefetto Luigi Pizzi – ha impedito che la salma del boia di Bolzano, il caporale delle SS Michael “Misha”Sefert, di origine ucraina, – venisse tumulata in una fossa comune. L’Ente, infatti, si è fatto carico delle spese di sepoltura e ha destinato al famigerato nazista un loculo vuoto su cui è stata apposta una lapide non marmorea costruita dalle guardie del carcere militare dove Sefert era rinchiuso dal 16 febbraio del 2008 dopo che l’Italia aveva ottenuto l’estradizione dal Canada. Tra i testimoni che deposero sulle sue atrocità, anche Mike Bongiorno.

Eppure il boia di Bolzano aveva ancora dei parenti: la moglie Christine ultra ottantenne e il figlio John di cinquantaquattro anni, entrambi  residenti a Vancoveur. Ma nessuno dei due si è fatto avanti per reclamare la salma. Anche per loro, evidentemente,  l’ex caporal maggiore era un uomo che già era morto da tempo. Un fantasma con cui è meglio non aver nulla a che fare nonostante fossero trascorsi oltre sessant’anni dai fatti che gli furono imputati. E per i quali fu condannato all’ergastolo.

I suoi crimini risalgono al 1944 quando viene assegnato al Comando della polizia di sicurezza e del servizio di sicurezza presso il Comando Supremo delle SS in Italia. Dal dicembre 1944 all’aprile 1945 è stato addetto alla vigilanza del campo di transito di Bolzano. Qui e nel campo di concentramento di Fossoli ha torturato e ucciso almeno diciotto civili, molti dei quali adolescenti. In molti casi Seifert ha agito autonomamente, uccidendo e torturando senza alcun particolare motivo. In altri casi ha ricevuto ordini dal sopraintendente alle celle Albino Cologna. In ogni caso, Cologna fu acquiescente del comportamento di Seifert.

Tra i prigionieri dell’epoca anche lo scomparso presentatore Mike Bongiorno, che ha testimoniato sui delitti commessi da “Misha” che, al termine del secondo conflitto mondiale,  riesce a fuggire in Canada. Nel 1980, però, viene fotografato da un reporter canadese. E quelle foto risulteranno decisive per la sua completa identificazione.  E per la successiva estradizione in Italia che avvenne nel febbraio 2008. In Italia, Sefert era stato già processato e condannato nel 2000 all’ergastolo per la particolare efferatezza dei suoi crimini per cui meritò l’appellativo di “Boia di Bolzano”.

Tra le testimonianze più agghiaccianti nel processo che lo vedeva unico imputato, quella del partigiano Berto Perrotti che riferì di almeno quattordici omicidi commessi nella prigione del campo, tra cui quello di un giovanissimo partigiano accusato, ingiustamente, di aver rubato del pane per sfamarsi. Insieme all’altro nazista Otto Sein (già deceduto), “Misha” lo uccise il giorno di Pasqua sbattendogli la testa ripetutamente contro i muri della celletta. Quando, invece, Sefert optava per gli strangolamenti circolava indossando un paio di guanti di pelle nera. E vedendolo così un brivido correva sulle schiene dei prigionieri. A chi sarebbe toccato?

di Mario Tudisco

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