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Silvio forever, ritratto
di un narciso

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Fa paura Silvio forever, di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, scritto da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. L’ho visto sta mattina al cinema Quattro Fontane di Roma, platea gremita di giornalisti. Accoglienza freddina. Domande infastidite. Una su tutte, mezza detta, mezza sottintesa: ma chi lo va a vedere ‘sto film? Per “quelli che Berlusconi gli fa schifo” è troppo poco antagonista. Per quelli che lo amano è troppo sarcastico. Dal tavolo degli autori fioccano i distinguo: “Fare un film contro B. è troppo facile”. “Questa è un’autobiografia. Parole sue. Non è né pro né contro”. Infatti, non è né pro né contro. Quindi: handle with care, maneggiare con cura. Però maneggiate, please! Cioè: andate a vederlo. Vietato astenersi. Esce venerdì.




Se andate allo spettacolo delle 20.30, fatevi prima un robusto aperitivo. Se andate allo spettacolo seguente, un litro di rosso è la prescrizione minima. Vederlo da sobri, alle dieci del mattino, è una prova dura. E’ un film doloroso, nella sua spietata scelta stilistica. La voce narrante è quella dello stesso Berlusconi. E’ lui che si racconta, da quando si infilava fra le gambe di suo padre per entrare allo stadio senza pagare il biglietto a quando lasciava l’aula di uno dei suoi innumerevoli processi, perché un uomo importante ha ben altro da fare, mica ha il tempo di ammuffire in Tribunale.

E’ sua la voce, sostituita talvolta da quella, quasi perfettamente uguale, di Neri Marcorè. Sono sue tutte le parole. Una sequela ininterrotta di autocelebrazioni infantili, ossessive. E’ una sua modalità consueta, quel parlar di sé in terza persona, come un bambino dissociato, come un vecchio rintronato. E’ suo il parcoparole: un basic italian a prova di analfabeta. E’ suo il faccione, bruttino fin da giovane, che giganteggia sullo schermo. E’ suo il sorriso indossato come la livrea del servo sciocco, al servizio del padrone furbo e criminale. E’ sua la scissione fra una parte di sé arlecchino, che carambola e caprioleggia, e l’altra parte di sé, il monarca assoluto, avido e manipolatore, corrotto, disonesto, egoista.

Un film doloroso. Un film su un caso clinico, se vogliamo… ma: vogliamo? Sarebbe saggio, volere… è sempre saggio voler sapere. Ma ci fa paura. Ci fa paura dover riconoscere di essere stati governati per vent’anni, e condizionati per trenta, da una personalità disturbata. Un mio amico psicoanalista, Sergio Molinari, aveva iniziato, con me, l’estate scorsa, un discorso molto serio su Silvio Berlusconi visto come un individuo mai sortito dalla fase schizoparanoidea. Non ha fatto in tempo a portarlo a termine… L’angoscia strisciante che mi ha provocato la visione di Silvio forever mi ha ricordato l’inquietudine con cui lo ascoltavo.

Da questo film coraggioso e non compiacente si esce atterriti. “Ma come? E’ il ritratto di un uomo bonario, mariuolo ma simpatico”, hanno detto alcuni dei presenti in sala. No, è il ritratto di un uomo pericoloso e detestabile. Un narcisista assoluto. Superficiale, arrogante e cialtrone. E poi,comunque, la malinconica verità del film è un’altra. Andatelo a vedere e poi ditemi se non ho ragione: Silvio forever è il ritratto di una buona metà degli italiani. Riempiono le inquadrature più terrificanti: quelli che ridono con lui, che cantano inni elementari, che capiscono soltanto le sue 100 parole e le sue quattro promesse (peraltro non mantenute)… ma quelle le capiscono benissimo… Questi uomini e queste donne, cari compagni di sventura, sono considerati, ormai in tutto il mondo, “gli italiani”. Ed è di loro che dobbiamo avere paura. Di quelli che ridono con lui, mentre noi, divertiti e rassegnati, ci attardiamo a ridere di lui.

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