Sull’onda di un conato di rabbia (oltre che di vomito) ieri, 12 marzo, sono scesa in piazza in difesa della scuola pubblica e della costituzione. “Gli insegnanti della scuola  di Stato inculcano principi che sono diversi da quelli che i genitori vorrebbero…” sono queste le parole di Mister B. che mi hanno spinto a tirar fuori dall’armadio la giacca delle manifestazioni (la conservo dagli anni ’70) e a scendere in Largo Cairoli a protestare. “In effetti – pensavo mentre spazzolavo la casacca molto usata – le maestre di mio figlio inculcano parecchio ultimamente. Quella d’italiano gli ha inculcato oltre alle preposizioni articolate, anche pericolose nozioni sui Fenici, gli Assiri e pure il temibile Assurbanipal. Ma c’è di peggio. L’ingegnante di matematica e scienze dopo le misure di massa si è spinta fino ad inculcare la  fotosintesi clorofilliana nelle fragili menti dei bambini si sa che può avere esiti disastrosi”.

Mi sono anche chiesta chi saranno mai stati gli insegnanti di Silvio adolescente.  A chi attribuire la responsabilità di avergli inculcato un immaginario erotico che evoca gli stessi raffinati scenari di una commedia con Bombolo: poliziotte, infermiere, gemelline tutto pepe…cose che Alvaro Vitali è Bunuel a confronto. O forse gli insegnanti questa volta non c’entrano, ed è tutta roba sua, chissà.

Accompagnata da mio figlio e da amici anche loro con pargolo annesso, sbarco finalmente in Largo Cairoli e subito lancio l’allarme: “Compagni, la piazza è invasa dai fascisti!” Dinnanzi a me, sventolano miriadi di bandiere tricolore. “Ma che fascisti – dice la mia amica – il tricolore è simbolo della costituzione, dimenticati gli assembramenti della Fiamma Tricolore, adesso la bandiera italiana la usiamo noi”. E mi sorride con un velo di tristezza negli occhi. Sono sempre l’ultima persona informata dei fatti.

Ci spingiamo fino all’angolo occupato da “Rete scuole” che però non sono presenti sul palco perché, mi spiegano, hanno litigato furiosamente con gli altri sulle priorità. Non capisco che cosa voglia dire, ma mi sento in pieno clima anni ’70.

Perché hai un fiocco giallo addosso, mamma? Non era bianco l’altra volta?” Chiede mio figlio. “Il bianco era per le donne – spiego all’ingenuo fanciullo – il giallo è per la scuola e il tricolore…” Ma le parole mi muoiono in bocca mentre la mia immaginazione rievoca sterminate piazze colme di bandiere rosse come il fuoco. Sarà che sono milanese e… cinq sghei pussè ma russ, ma a me sta sparizione del rosso mi fa una gran tristezza.

Per rimanere sempre in clima anni ’70, terminiamo il pomeriggio a mangiare le patatine fritte in Piazza S. Stefano che, per chi non è di Milano, è la piazza dove finivamo sempre le giornate dopo le manifestazioni. Le patatine adesso costano come una rata del mutuo e la piazza, una volta frequentissima da giovani e studenti ora è piena solo di banche e di negozi di computer, ma fingo di non pensarci mentre addento una patata bollente: almeno il sapore è identico a quello di tanti anni fa.

Alla sera, divelta dalla stanchezza, mi spalmo sul divano. Alla tv danno “Inkheart, cuore d’inchiostro” un film dove il protagonista ha lo strano potere di far materializzare le storie che legge sui libri. M’illumino d’immenso: ecco perché scrivo libri, perché si realizzi quello che scrivo! Su questa rivelazione mi addormento di botto. Come dirà mio figlio nel tema di lunedì: ”Siamo tornati a casa stanchi, ma felici”. Noi, non ci facciamo inculcare da nessuno!

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