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Il peso di un insulto

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“Zoccola!”, dice lui uscendo dal bar. “Zoccola? Vieni un po’ qua a farmi vedere i documenti! Vediamo se sei in regola? Su, vieni”, urla lei furente dalla porta del bar.

Una scena da strada romana, da strada italiana. Lui è un ragazzo di colore che vende fazzoletti e accendini. Pochi minuti prima mi aveva avvicinato, cortesemente. Senza protestare, quando gli ho detto che non avevo bisogno di nulla, si è allontanato, salutandomi: “Ciao amico”. Ora, non so cosa sia successo dentro il bar, non voglio giustificare nessuno che si rivolga ad una donna in malo modo, meno che mai dandole della “zoccola”.

Però, il modo di rispondere all’insulto della barista, ragazza giovane dalla faccia pulita, mi ha sorpreso. Non mi sarei stupito se le avessi sentito urlare insulti del livello, molto basso, di “zoccola”. Ma quel “fammi vedere i documenti, vediamo se sei in regola” mi è rintronato nella testa per tutta la mattina. Ormai, davvero pensiamo che essere “clandestino” sia un crimine o ancora peggio l’aggravante di una condizione già in partenza sbagliata: il nero, lo straniero, il diverso?

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