Gli accordi siglati dalla Fiat relativi alla riorganizzazione dei siti produttivi italiani pone delle questioni ineludibili dal punto di vista sindacale come anche sul piano politico.

1. In primo luogo, questi accordi ci dicono chiaramente che cosa è oggi la democrazia politica in questo paese. Sono decenni che la politica non riveste un ruolo di mediazione dei conflitti e di interessi contrapposti. Oggi la politica è semplicemente l’arte dell’imposizione di un interesse particolare, spacciato come generale. Prima si schiacciavano i diritti in nome della competitività, della flessibilità come strumento di crescita, del controllo dell’inflazione e del debito pubblico. Ora con la crisi l’approccio è diretto: o la borsa o la vita! Anche i modi si sono fatti espliciti: con la forza o con la corruzione. Dal regime economico al regime politico tutto si compra (dai sindacati ai partiti); chi pretende politica viene zittito. Per i migranti e il precariato in generale, così come per gli studenti, non c’è mediazione che tenga. E se la tensione sale? Allora si rispolvererà la tradizionale ricetta del bastone e della carotina: da un lato si apre un’interlocuzione formale con una sponda istituzionale che però non ha alcun potere deliberativo-legislativo – ad esempio il presidente della Repubblica, com’era già successo per i licenziati di Melfi –, dall’altro si mette in cantiere la sospensione dei diritti democratici, com’è di fatto avvenuto con gli accordi separati di Mirafiori e Pomigliano o con l’idea dell’allargamento del regime Daspo ai manifestanti.

2. In secondo luogo, i due accordi sanciscono in modo definitivo la frattura all’interno del sindacato confederale. Cisl e Uil sono ormai del tutto subalterne a una logica di concertazione prona alle compatibilità aziendali, e accampano giustificazioni in nome della tenuta dell’occupazione e della necessità di adeguare i ritmi di produzioni e di sfruttamento ai modelli organizzativi della Germania e degli Usa (dimenticando – elemento di non poco conto – che lì il salario è il doppio di quello italiano). La Fiom si trova da sola a tener duro su principi inalienabili connaturati alla propria esistenza, rischiando grosso: l’estromissione al tavolo delle relazioni sociali avrebbe per lei ripercussioni enormi. La Cgil, come al solito, all’apparenza tiene il piede in due scarpe, dà un calcio al cerchio e uno alla botte, bussa ad ogni porta, alza il volume mediatico, ma la verità è che il sentiero è segnato. L’elezione di Camusso a segretaria generale propende infatti per una politica concertativa e, nel concreto, tendenzialmente a-conflittuale. Se non avrà il coraggio ora di dare un segno di discontinuità – magari uno sciopero generale, vero – il sindacato più grande d’Italia perderà anima e consenso.

3. Se a Pomigliano non c’è stata trattativa ma un diktat stile “prendere o lasciare”, a Mirafiori si nega la visibilità e l’agibilità politico-sindacale del sindacato riottoso. È il preludio di un nuovo modello di governance delle relazioni industriali che riprende e allarga ciò che già avviene a livello istituzionale. Regime politico e regime economico non sono altro che due facce della stessa medaglia.

4. Infine tutto questo ci porta a ciò che Sanprecario.org ripete come un mantra da alcuni anni. La condizione di precarietà è generalizzata; non riguarda solo chi è contrattualmente precario con un rapporto di lavoro atipico: riguarda anche chi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Perché chiunque sa che basta un niente – una delocalizzazione, una ristrutturazione, una dichiarazione di stato di crisi (più o meno presunto) – a far sì che da un giorno all’altro un lavoro stabile si trasformi in lavoro precario. Tuttavia, tutto ciò ci ricorda che la precarietà non riguarda solo l’intermittenza di lavoro o il rischio di chiusura, ma anche le condizioni di lavoro e di salario: aumento dei turni, spostamento della pausa mensa a fine turno, obbligo di straordinario, non pagamento della malattia.

E via col liscio…

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