Il conflitto e la prigionia. Le lesioni da fucile e i problemi respiratori. Tornato a casa dopo la seconda guerra mondiale Cesare Negruzzi non era più lo stesso soldato partito per il fronte, ma un uomo fisicamente più debole. Per questo aveva presentato domanda per la pensione di guerra. La risposta però non l’avrebbe mai saputa. In attesa dell’esito di un processo durato oltre quarant’anni, moriranno lui e il suo avvocato, la sua vedova e il rispettivo legale. Troppo, per la Corte d’appello di Bologna che condanna lo Stato a un risarcimento almeno simbolico per quel ritardo infinito. Anche se dopo quasi mezzo secolo, giustizia è fatta.

O meglio: quasi, perché lo Stato non ha ancora tirato fuori un euro. Niente. Sembra davvero destinata a non avere fine un’odissea iniziata appunto, troppo tempo fa. E’ il 1969 quando Cesare presenta richiesta della pensione. Il conflitto è ormai distante, ma un anno sul campo e tre passati da prigioniero prima in Inghilterra e poi in Tunisia hanno lasciato il segno: lesioni da fucile e infermità bronchiale artrosica e pleurica. Sofferenze riconosciute dalla Commissione Militare di Genova che, nel 1970 gli concede il tributo. La questione sembra presto risolta, invece a breve inizia il disastro. La Corte dei Conti infatti solleva questioni sulla decisione, quindi bisogna iniziare il processo.

Nulla di male, se non fosse che la prima udienza viene fissata vent’anni dopo: nel 1991. Ma nel 1990 Cesare è già morto, all’età di ottant’anni. In udienza c’è poco da discutere: constatata la morte del richiedente, gli atti vengono passati alla vedova che decide di continuare il giudizio. Il processo può andare avanti, ma deve ricominciare da capo. Peccato che la nuova prima udienza arrivi tredici anni dopo, nel 2003. La vedova di Cesare è già morta: nel 1999, all’età di 89 anni. L’udienza si tiene comunque e il teatrino è lo stesso: constatata la morte della richiedente, gli atti passano ai figli ormai ultrasessantenni. Proprio con loro, la questione sembra finalmente avviarsi, ma nel 2004 arriva la beffa. La Corte dei Conti di Bologna nega la pensione, ma la Corte dei Conti di Roma annulla la sentenza (si ritiene che il giudice non abbia svolto l’istruttoria necessaria ovvero una perizia sulle cartelle cliniche) e di nuovo rimanda gli atti a Bologna.

Per i figli è troppo. Le consulenze e le perizie sono ormai decennali, bisognerebbe recuperare tutte le testimonianze di coloro che avevano lavorato negli ospedali dove era stato assistito il padre per continuare a lottare. L’impresa è impossibile. Quei pochi soldi che Cesare aveva chiesto di aiuto non sono più importanti per loro, per cui la questione diventa un’altra: un uomo che ha servito lo Stato non aveva almeno il diritto di ottenere una risposta? I figli pensano proprio di sì e “abbandonata” la causa della pensione di guerra (che per forza di inerzia nel 2007 arriva ad un ‘no’), si presentano invece alla Corte d’appello di Bologna per chiedere la condanna dello Stato e un risarcimento simbolico per le lungaggini del processo. Chiedono, e la Corte risponde e condanna lo Stato. Nessuno presenta opposizione alla sentenza che nel luglio del 2009 diventa definitiva. Una vittoria, ma solo sulla carta. Subito dopo la pronuncia infatti cade ancora una volta, inquietante, il silenzio. I soldi non arrivano. I figli ormai anziani aspettano da più di un anno e mezzo senza ricevere nessuna comunicazione ufficiale, nulla. Non resta che sperare non ne passino altri quaranta di anni. Che almeno la terza generazione si salvi.

di Cristina Manara

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