Più di due mesi fa, su questo stesso blog, pubblicai un post dal titolo “Le domande che non avrei voluto fare“. L’occasione era scaturita da una serie di notizie diramate dai mezzi di informazione: una dichiarazione di Giuseppe Ayala riguardante le scorte dei magistrati e in particolare dei magistrati di Palermo, che secondo Ayala andavano rivisitate a causa della diminuita pericolosità di Cosa Nostra, che “da oltre 18 anni non uccide più“. Nella sua replica, il presidente della giunta Anm di Palermo, Nino di Matteo, manifestava le sue perplessità relativamente a questa dichiarazione che riteneva, giustamente, “fuori luogo e fuori tempo“. La contro-replica di Ayala che, con la supponenza che gli è consueta, definiva Di Matteo – uno dei magistrati più impegnati nelle nuove inchieste della Procura di Palermo sulla “trattativa” che probabilmente fu la causa scatenante della strage di Via D’Amelio, e pertanto uno dei magistrati più a rischio – “un collega che ha cominciato a muovere i primi passi da magistrato soltanto nel 1993“, quando cioè Ayala aveva già abbandonato, ma solo temporeamente, la toga per dedicarsi ad una più agiata vita da parlamentare.  Tranne poi a rispolverare la toga stessa scuotendone la polvere accumulata in ben quattro legislature, due alla Camera e due al Senato, approdando dal Partito Repubblicano Italiano ad Alleanìza Democratica e infine ai Democratici di Sinistra.

Partendo da queste premesse gli ponevo una serie di domande definendole come “domande che non avrei voluto fare” ma che ero costretto a fare a fronte di alcuni episodi ed alcuni dubbi che continuavano a tormentarmi nei riguardi di Ayala. La prima riguardava l’Agenda Rossa di Paolo, la sua sparizione subito dopo la strage  e una serie di testimonianze discordanti rese  da Giuseppe Ayala su quell’episodio che lo vide coinvolto, da protagonista, come una delle persone che ebbero in mano la borsa di Paolo subito dopo la strage. Le quattro differenti versioni sono, in successione:

Quella dell’ 8 aprile 1998, nella quale Ayala dichiara di avere rifiutato di prendere in mano la borsa che un ufficiale dei carabinieri gli porgeva dopo averla prelevata dal sedile posteriore della macchina blindata di Paolo.
Quella del 2 luglio 1998 nel quale Ayala non è più sicuro che l’uomo, seppure in divisa, fosse un ufficiale dei carabinieri.
Quella del 12 settembre 2005 (nel frattempo, a seguito del ritrovamento di una fotografia, è entrato in scena anche il Cap. Arcangioli) nella quale Ayala cambia completamente versione e dice di avere prelevato lui la borsa dal sedile posteriore ma di averla poi affiata ad un ufficiale dei carabinieri escludendo addirittura in modo perentorio che sia stato l’ufficiale di cui si parla a consegnare a me la borsa“.
Ed infine quella dell’ 8 febbraio 2006, la più confusa nonostante sia l’ultima, nella quale prima sarebbe una persona che “è certo che non fosse in divisa” a prelevare la borsa e poi è la stessa persona, che adesso però è improvvisamente “in divisa“, a volgersi  verso di lui e a consegnagli al borsa,  che egli stesso, a sua volta, consegna “istintivamente” ad un ufficiale in divisa che si trovava accanto alla macchina.
Le corrispondenti dichiarazione del Cap. Arcangioli del 5 maggio 2005 sono completamente differenti e raccontano di Arcangioli e di Ayala che aprono insieme la borsa e constatano che non c’è l’agenda.  Ma sapevano che ci fosse o che ci dovesse essere?

A fronte di queste incredibili contraddizioni mi sembra che sia naturale e legittima la prima domanda posta ad Ayala: come è possibile che un magistrato della sua esperienza dia versioni così contrastanti e contraddittorie di un episodio di cui, come magistrato, sapeva che sarebbe stato chiamato a rendere testimonianza? Come è possibile che, da magistrato, seppur già passato alla carriera politica, si sia prestato ad alterare o a permettere che venisse alterata la scena del delitto senza neanche curarsi di identificare o di fare identificare la persona alla quale veniva consegnata la borsa di Paolo, senza neppure ricordare chiaramente se questa persona fosse in divisa oppure in borghese?

La seconda domanda riguarda l’incontro del 1° luglio 1992 tra Paolo Borsellino e Nicola Mancino, appena nominato ministro dell’Interno nel suo studio del Viminale. Qui Ayala non è direttamente coinvolto, ma è intervenuto di propria iniziativa come testimone, prima involontariamente a carico e poi a discarico, asserendo prima che Mancino gli avesse mostrato un’agenda con annotato, il 1° luglio, l’incontro con Paolo Borsellino, e cambiando poi completamente versione, dicendo di avere avere visto un’agenda senza nessuna annotazione e sostenendo come questo dimostrasse che non ci fosse stato nessun incontro. La mia richiesta era quella di chiarire questa circostanza e di spiegare perché si fosse prestato a sostenere prima una versione e poi ritrattarla e se per questa ritrattazione avesse subito sollecitazioni da parte di qualcuno.

L’ultima domanda era più semplice e riguardava soltanto una questione etica, cioè se ritenesse opportuno che un magistrato in servizio, ovvero lui stesso, partecipasse, in veste di protagonista unico, ad uno spettacolo a pagamento, nel quale si parla del periodo da lui trascorso insieme con Paolo Borsellino e Giovanni Falcone: se, cioè, ritenesse opportuna la mercificazione del ricordo dei due giudici uccisi e del suo rapporto di amicizia con questi ultimi.
Credo che si trattasse di domande più che legittime da parte di chi ha dedicato l’ultima parte della sua vita alla ricerca della Giustizia e della Verità  su una strage della quale, a diciott’anni di distanza,  non si conosce ancora quasi nulla e per la quale, come per tutte le stragi di Stato, si sono susseguiti depistaggi e silenzi complici di ogni tipo. Per più di due mesi queste domande non sono state degnate di alcuna risposta, ma qualche giorno fa è intervenuto un fatto nuovo.

Un gruppo di ragazzi appartenenti al Movimento a 5 Stelle di Bologna ha pensato di presentarsi all’ingresso del teatro dove andava in scena, a pagamento, lo spettacolo di Ayala e, mossi dal desiderio di sollecitare una risposta alle mie domande e dall’intenzione di informare il pubblico sui passaggi più controversi che hanno riguardato le testimonianze di Ayala su ciò che accadde il giorno della strage in via D’Amelio, hanno cercato di sollecitare queste risposte dallo stesso Ayala. E così delle risposte da parte di Ayala sono finalmente arrivate.
C’è però un problema, e non è indifferente: le risposte non hanno nulla a che fare con le domande e, anzi, sembrano proprio volte ad eluderle, ad evitare di rispondere. Nel corso dell’intervista, visibile su You Tube e riportata da diversi siti sulla rete, Ayala comincia dapprima  ad accusarmi, accompagnando le sue affermazioni con evidenti gesti ed espressioni allusive del viso, di essere “una persona che soffre di gravi problemi mentali“, “un caso umano“, e poi, non ancora appagato, aggiunge, e lo ribadisce più volte accompagnandolo con quella mimica che gli proviene dalle innegabili doti di affabulatore e di intrattenitore, che il rapporto tra me e mio fratello sarebbe lo stesso che intercorse tra Abele e Caino. Se ne deduce, dato che ovviamente Paolo non può essere altri che Abele, che io sarei evidentemente paragonabile a Caino, cioè all’assassino di suo fratello.

A questo punto, oltre che chiamare il Sig. Ayala a rispondere davanti alla legge delle sue affermazioni esibendo i certificati che attestano la mia infermità mentale e facendo i nomi delle altre persone che, come sostenuto nel corso dell’intervista, condividerebbero la sua diagnosi, non mi resta che porgli due ulteriori domande ed aggiungerle a quelle già in coda d’attesa. La prima riguarda un’affermazione fatta proprio nel corso dell’intervista, e cioè che lui non conoscesse neppure l’esistenza di questa agenda rossa di Paolo. Forse non ne conosceva il colore, ma del fatto che Paolo, poco incline all’uso dei computer, prendesse a mano i suoi appunti su delle agende o rubriche, Ayala ne ha più volte parlato, anche con me personalmente, e quindi poteva e doveva supporre che la sua borsa potesse contenere qualcosa di tanto importante da rendere necessaria una cura maggiore che quella di affidarla alla prima persona, in divisa o meno, che si fosse trovato accanto.

In ogni caso, dato che in una intervista del 23 luglio 2009, ripresa in un libro pubblicato da Antimafia Duemila, Ayala afferma “è verosimile che l’agenda fosse dentro la borsa e che sia stata fatta sparire“, gli chiedo come concilia questa sua affermazione con quella in cui dice di non conoscere l’esistenza di un’agenda di Paolo e quali elementi ha per affermare che possa essere fatta sparire. A questo proposito gli chiedo ancora , sperando che capisca che si tratta di una domanda provocatoria e non dell’ulteriore farneticazione di una persona malata di mente, se per caso non abbia elementi che siano in grado di dimostrare che sia stato io a sottrarre l’agenda rossa di Paolo. Mi pare che sia un atto perfettamente attribuibile ad una persona paragonabile a Caino.

Una sua eventuale tesi in questo senso potrebbe essere avallata da una sentanza della Cassazione che ipotizzi che l’agenda rossa, al momento della strage, nonostante la testimonianza in questo senso della moglie di Paolo, non si trovasse nella sua borsa. Questo vuol dire, dato che Paolo era così geloso di questa sua agenda da portarla sempre con sé, che potrebbe avergliela sottratta solo uno dei suoi parenti più stretti, come, ad esempio, un fratello, che, anche se paragonabile a Caino, non poteva, a causa dello stretto rapporto di parentela, non godere della sua fiducia, seppur mal riposta. Per Ayala un’ultima domanda: se, come magistrato, ha chiesto e ottenuto dal Csm l’autorizzazione a partecipare, da protagonista, a spettacoli a pagamento. Come politico poteva farlo senza problemi, come magistrato credo sia necessario, oltre che opportuno.

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