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Monicelli e il Cavalier ghepensimì

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Nella prima estate dell’era berlusconiana (luglio-agosto 1994) il Corriere mi commissionò una serie di interviste sulla cultura italiana di fronte al cambiamento. Tra gli altri, andai a trovare l’allora settantanovenne Mario Monicelli. Fu uno dei più deliziosi pomeriggi della mia vita, uno di quei momenti in cui non rimpiangi di avere scelto questo mestiere. Oggi, pensando al suo povero corpo schiantato in un cortile d’ospedale, ho frugato Google in cerca di quell’intervista. Eccola

Come potete vedere, col vecchio regista si parlò di tante cose, dal cinema alla società. Colpiscono, riletti oggi, i suoi giudizi impietosi sui colleghi più giovani: “Tornatore, per ora, ha fatto un solo buon film, e poi due fiaschi. Quanto a Moretti, è un caso a parte, lo hanno già canonizzato. Ma anche lui, non si può dire che abbia sedotto le masse. Il vero arbitro del successo è il borgataro, e il borgataro va a vedere i film di Spielberg o di Huston, non quelli di Moretti”. In compenso, ebbe parole di apprezzamento per Archibugi, Salvatores, Risi, Amelio, Ricky Tognazzi, che trovava meno complessati verso i grandi maestri. E concluse: “Dalla crisi si esce in un solo modo: rafforzando l’industria, facendo del cinema che richiami il pubblico, per cui chi ci mette del denaro ne ricavi un tornaconto. Come fanno in America“. Eh, altro che America, questa è l’Italia dei Brancaleone.

Il buon Monicelli non poteva certo prevedere che anni dopo, in omaggio al mercato e alla meritocrazia, la televisione di Stato avrebbe regalato un milione di euro al film di una certa Dragomira. In quell’estate del 1994 il Cavaliere si era appena insediato a Palazzo Chigi per la sua prima breve avventura di governo. Né io né il mio intervistato lo avevamo votato, ma non ci faceva troppa paura. Lui lo paragonava al cavalier Tino Scotti, la macchietta del milanese “ghepensimì”.  Ci preparavamo a vedere e a vivere una commedia alla Monicelli, magari un po’ più sguaiata, non certo un film dell’orrore lungo sedici anni, come quello che poi ci siamo dovuti sorbire (e forse non siamo nemmeno ai titoli di coda).

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