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G20, la Corea nasconde gli irregolari
e allontana gli attivisti

Va in scena il summit dei grandi della terra in una atmosfera surreale. Un'organizzazione maniacale fra cene di gala e repressione del dissenso
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Hanno voluto fare le cose in grande. Dopo le Olimpiadi nel 1988 e i mondiali di calcio nel 2002, i coreani si sono ritrovati tra le mani un’occasione imperdibile di autopromozione come il G20 e hanno deciso di investire per rendere l’evento perfetto da ogni punto di vista. Costo dell’operazione: 200 milioni di euro. Per i giornalisti sono state organizzate cene di gala e lunghi tour guidati di Seoul, con tanto di telefonate a profusione – anche in orari improbabili, causa fuso orario – per chiedere conferme o disdette agli addetti ai lavori interessati.

L’attività di ufficio stampa è stata affidata a professionisti del settore (non alla Protezione Civile come accadde a l’Aquila in occasione del G8 dello scorso anno), ma buona parte dei denari messi a disposizione dal governo guidato da Lee Myung-bak sono andati alla mastodontica operazione sicurezza allestita nella capitale, con dispiegamento massiccio di forze (circa 60mila poliziotti a disposizione). Soliti timori per eventuali attentati e per le possibili intemperanze dei manifestanti anti-G20? Non solo. Per far vedere la faccia bella della Corea, dove l’ordine regna sovrano e anche il traffico è a modo suo molto disciplinato, è servito un po’ di maquillage anche su altri fronti. Per esempio mettendo sotto lo zerbino i paria di Seoul: venditori ambulanti e migranti non in regola.

Nelle ultime settimane la polizia locale ha inscenato veri e propri raid, rastrellamenti di massa, che hanno avuto anche un risvolto tragico. In un’incursione nel distretto digitale, nella parte occidentale di Seoul, un padre di famiglia vietnamita si è lanciato dalla finestra per sfuggire alle attenzioni delle forze dell’ordine, perdendo la vita.

La polizia non ha voluto lasciare nulla al caso nemmeno alla manifestazione tenutasi oggi, a poche ore dall’inizio del vertice. Dopo gli scontri registratisi domenica scorsa durante la prima marcia dei sindacati, si è preferito tenere la società civile a molti chilometri di distanza dal centro congressi dove si incontrano i grandi della Terra. Le paranoie degli addetti alla sicurezza – presenti in un rapporto quasi paritario rispetto ai soli 5mila attivisti accorsi all’appuntamento presso la stazione centrale di Seoul – erano tali e tante che hanno iniziato ad avvicinare i giornalisti, già muniti del vistoso accredito per il G20, fornendogli una fascia per il braccio arancione con scritta “press” in bella evidenza.

“Possiamo avere i vostri numeri di telefono e nominativi, siamo qui per proteggervi e abbiamo bisogno di informazioni su di voi”, ci hanno spiegato alcuni poliziotti in borghese, ammettendo poi a mezza bocca di essere delle forze dell’ordine. Alle nostre perplessità hanno ribadito che sicuramente ci sarebbero stati incidenti, al pari di quanto accaduto pochi giorni prima.

Peccato poi che l’unico momento di tensione di un evento nel complesso molto pacifico si sia verificato quando ai manifestanti è stata bloccata l’uscita dalla piazza dove era previsto il concentramento generale. Il perché di un atteggiamento tanto ostile, nonostante il percorso fosse stato autorizzato da tempo, è rimasto alquanto misterioso. Eccesso di foga o sfoggio di muscoli? A voler essere un po’ maligni, c’è da pensare che se non ci fossero stati in giro per la piazza oltre 500 giornalisti, forse la situazione sarebbe precipitata. Menare le mani davanti alle telecamere di mezzo mondo non sarebbe stata una bella pubblicità per la Corea.

Di Luca Manes, inviato a Seul

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