È più facile stroncare un film o parlarne bene? Ci vuole più coraggio a dire, oggi, che Kusturica ha rotto le scatole o ce ne voleva di più, nel 2001, a dire che Zoolander di Ben Stiller è geniale?

Di certo stroncare un film è divertente soprattutto se si tratta del “nuovo capolavoro” di un regista incensato. Mariarosa Mancuso, abrasiva critica de Il Foglio, intervistata domenica su questo giornale cita uno dei registi che più meritano di essere infamati: Wim Wenders. Uno che da 25 anni non fa nulla di degno ma resta sempre un “poeta” della macchina da presa. Stroncare Wenders riconcilia con la vita. È un atto di giustizia. È sacrosanto, insomma, parlare male di quei registi che, dopo una manciata di buoni o ottimi film, non hanno più niente da dire ma sono diventati “marchi” intoccabili. In ogni caso, però, è più facile stroncare che parlare bene di un lavoro complicato, poco fruibile, impopolare. E ci vuole più coraggio a parlare bene o benissimo di un regista poco noto o di film apparentemente “scemi” e mainstream.

Se il cinema è una finestra sul mondo e ogni film ci offre un punto di vista sulla vita, la difficoltà del critico è capire quale mondo e quale vita un film ci raccontano. Non tutti i film forniscono una visione nuova, potente o strutturata della realtà. Ma ci sono film che la possiedono. Il difficile è capire quali. Il vincitore dell’ultima Palma d’Oro, innegabilmente, può condurre lo spettatore tra le braccia di Morfeo. Ma è un bel film. Lo zio Boonmee è ostico ma offre idee non banali e – cosa ancora più importante – lo fa coerentemente con lo stile scelto dal regista Weerasethakul. È, insomma, un film interessante (categoria anche più importante del bello). Oppure, prendiamo un film come Post mortem di Pablo Larrain. Un lavoro gelido, sgradevole. Ma si dà il caso sia un ottimo film. Allora, cosa deve fare il critico? Forse fare da “ponte” tra opera e spettatore, per invogliarlo a fare uno sforzo interpretativo. Quello che, magari, ha dovuto fare lui per primo davanti a opere difficili. Inoltre è più facile parlare bene oggi di Post mortem (in concorso a Venezia), che del precedente film di Larrain, Tony Manero, che è ancora più bello, ancora più scabroso e che, però, stava in una sezione collaterale del Festival di Cannes ed è stato notato soprattutto quando ha vinto il Torino Film Festival. Per questo è molto più difficile parlare bene di un film: ci vuole intuito.

Difficile, piuttosto, stroncare con lungimiranza: chi, già a metà degli anni Ottanta, pensava che Greenaway non fosse un grande maestro, andrebbe abbracciato. Ci sono, poi, i pregiudizi negativi. Che sono ancora più difficili da scalfire. Chi difendeva i primissimi film di Cronenberg, horror di serie B, vedeva oltre. Chi lo difende oggi e magari si schifava davanti a Rabid, sete di sangue non merita encomi. Ed era molto più difficile parlare bene dei fratelli Farrelly ai tempi di Scemo& più scemo che farlo dopo Tutti pazzi per Mary. La noia è soggettiva e fin troppo facile come “strumento” di guida alla visione. Da sola non significa molto. Per capire se un film è interessante bisogna avere fiuto. E il fiuto, alla fine, è il vero talento di un critico.

Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2010

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