In attesa della loro unica data italiana, il 17 novembre al Palasharp di Milano, gli Interpol epigoni americani di quella tradizione musicale britannica di marca i cui massimi esponenti sono mostri sacri come Joy Division e Cure, il 14 settembre hanno dato alla luce – per la Cooperative Music – il nuovo album “INTERPOL”
Registrato agli Electric Lady Studios di New York, il cantante e chitarrista Paul Banks ha dichiarato che ha avuto “un’ispirazione orchestrale”.
Il concerto del 17 novembre al Palasharp di Milano avrà un prezzo di 27 euro, esclusi i diritti di prevendita. I biglietti sono già in vendita sui circuiti Ticketone, Geticket, Ticket.it e Teleart.
Ma andiamo ora a leggere l’ottima recensione di Giordano Carosi.

Il concetto è chiarissimo sin da subito, il disco è oscuro, cupo, pesante, sofferente. E’ un viaggio nel buio. Già la copertina offre poca speranza, tutta nera con la scritta metallica INTERPOL fatta a pezzi. C’è poco da stare allegri.

Sicuramente questo “INTERPOL” è il disco più “nero” degli Interpol. Già il fatto che l’album non abbia un titolo suggerisce l’idea di una gestazione sofferta e forse stabilisce il punto di partenza di un “ricominciamo da zero”.
Dimenticatevi i pezzi dal tiro divertente e trascinante “alla Interpol” che fanno muovere i muscoli. Qui non ci sono. Scordatevi le canzoncine abbastanza facili e immediate da canticchiare sovrappensiero, non se ne parla.

Al primo giro il disco è quasi incomprensibile, fatta eccezione per alcuni brani che emanano immediatamente un certo fascino magnetico seppur nascosto, il resto è tutto complessivamente confuso e macchinoso. Quasi irritante. Ci sono canzoni che sembrano volutamente disarmoniche e indefinite. Alla fine però restano dei labili indizi, delle sensazioni timide che incoraggiano ulteriori tentativi di ascolto. Quando succede questo, nove volte su dieci, sei davanti a un grande disco.
Nella storia della musica gli album più grandi hanno sempre avuto una corazza difficile da penetrare. Questo disco non è consigliato a chi non ha pazienza, a chi è in cerca di uno spassoso album rock.
Ci vogliono diversi ascolti per iniziare a capirci qualcosa dentro a questa nebbia buia e dolente. Anche chi naviga abitualmente in queste sonorità, fatica a trovare il bandolo della matassa e solo dopo parecchi tentativi si riesce a scalfire la superficie.

Sorprende leggere recensioni in cui si afferma che questo INTERPOL è sulla stessa linea dei precedenti: viene spontaneo domandarsi se chi scrive una cosa del genere l’abbia ascoltato davvero il disco precedente…

Perché dopo il trascurabile Our Love To Admire i ragazzi sono stati accusati (giustamente) di essere poco coraggiosi, di limitarsi a ripetere il compitino più semplice, riff orecchiabili, grandi ritmiche e poco di più. Sempre uguali a se stessi. E magari fossero stati sempre uguali, vista la differenza abissale tra il primo Turn On The Bright Lights e tutto quello che c’è stato dopo.

Ma INTERPOL è decisamente un passo avanti rispetto al recente passato, è coraggioso, profondo e indifferente alle tentazioni del successo facile, in una parola più maturo.
Basta prendere ad esempio due brani come All Of The Ways e The Undoing – che sembrano musiche misteriose per riti pagani/messe nere, in cui gli arrangiamenti sono pesantissimi e cupi e poi si aprono all’improvviso in dolci malinconie – , per comprendere che complessivamente non sarà facile far digerire al pubblico più pigro un disco come questo.
Altri brani come Success, Memory Serves , Summer Well (una linea di basso esilarante) e Lights, folgorante sequenza iniziale, hanno una veste forse un po’ più semplice ma racchiudono al loro interno tutto il meglio della musica dark/new wave di sempre, ritmiche incalzanti, tristezza, dolcezza, malinconia, disperazione, oscurità, chitarre sferraglianti e taglienti, il basso mai così potente in passato, ritornelli da pelle d’oca e senso di straniamento.
In particolare il singolo Lights è uno dei brani migliori di sempre degli Interpol in cui l’interpretazione di Paul Banks raggiunge vette altissime.
La quinta traccia Barricade è anche il secondo singolo dell’album, e questa è una scelta che sorprende, perché il brano oltre a non convincere del tutto, non ha un impatto facile all’ascolto. Inizia semplice e diretto ma si complica eccessivamente nei passaggi intermedi e il classico ritornello in cui il pezzo dovrebbe esplodere è in realtà la parte più debole.
Tutt’altra cosa sarebbe stato un singolo come Try It On, spettacolare e suggestiva con un arrangiamento ben al di fuori dai canoni consueti in cui spicca un pianoforte appena sfiorato e un finale in crescendo che trascina davvero.
Lo stesso si può dire di Safe Without che ha una costruzione inizialmente più spigolosa su una chitarra ossessiva che poi si scioglie in un inciso limpidissimo. Anche in questo caso spicca e convince l’interpretazione di Banks.

Citazione a parte per Always Malaise (The Man I Am) che al primo impatto suona come un lamento insopportabile, ma col passare del tempo ti sorprendi a cantarla mentre stai facendo tutt’altro e poi lentamente arrivi a scoprirne il fascino segreto. Una canzone introspettiva che chiede solo di essere ascoltata, come se fosse una richiesta d’aiuto. La costruzione melodica del pezzo è probabilmente la più complessa di tutto il disco ma affascina proprio per questa sua inafferrabilità.

In sostanza un disco che sorprende e che convince. Dopo le prove precedenti serviva una dimostrazione di carattere e di carattere qui ce n’è parecchio.
Un disco di grande spessore e personalità, profondo e concreto, con pochi fronzoli, anzi, direi nessuno.
Un disco di una bellezza sofferente come deve essere sempre un grande disco rock.

Vive le Rock!

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